In quel periodo di convivenza forzata del 1885, tulle le mattine e tutte le sere gli abitanti di Massaua erano allietati dal suono della marcia kediviale, della marcia reale italiana e dal britannico God save the Queen eseguito dalla fanfara del Condor, una goletta inglese: in questo idillio italo-anglo-egiziano, i massauini strabuzzavano gli occhi cercando di capire chi sarebbe diventato il loro padrone. Scrivono in modo graffiante Chiesi e Norsa:
“[…] In Italia, – ove il carrozzone ferroviario era avviato a buon punto – si guardava tutto codesto armeggio africano senza capirci nulla; e si registravano i nomi delle vittime di questa nuova politica […]. Qualcuno in Parlamento si arrischiò a chiedere un po’ di luce su quello che si faceva a Massaua. Il ministro Mancini fu pronto a turare la bocca agli inopportuni interpellanti col dire che eravamo andati a Massaua, nel Mar Rosso, a cercarvi le chiavi del Mediterraneo. Il pecorume parlamentare, sempre pronto ad applaudire il verbo ministeriale, questa volta applaudì più volte del solito, e gli interpellanti, soddisfatti o no, dovettero mettere le pive nel sacco e tacere. Tre anni sono passati ormai da quel giorno – e le chiavi del Mediterraneo, come la perla prodigiosa ingoiata dal mostro marino e ricercata dai neri pescatori dell’Arabia e del Golfo Persico, non si sono ancora trovate negli abissi vorticosi del Mar Rosso […]. Dopo questa boutade del Mancini, l’Italia si riassopisce nella consueta apatia. Anche l’Africa è passata di moda. Non dà emozioni sufficienti. A Massaua le cose scorrono come su di un lago d’olio”.
Arrivò quindi improvvisa la sveglia di Dogali. Dalle chiavi del Mediterraneo si passò così alle croci dei caduti. Chiesi e Norsa decidono di visitare il campo di battaglia, che dista circa a tre ore da Moncullo. Il puzzo cadaverico dei caduti saliva alle loro narici, unitamente alla sincera commozione. Il terreno era cosparso da innumerevoli cartucce vetterli (usate dagli italiani) e remington (usate dagli abissini di Ras Alula). I sassi conservavano i segni delle palle che li spezzarono, e gli alberi di acacia erano trapassati dai proiettili. Le posizioni italiane sono “[…] ricolme di avanzi di cartocci, libretti matricola, pezzi di giornale, pezzi di tela, scarpe, bastoni da tenda, brani di lettera, casse rotte, cartucciere, bottiglie di gazosa, barili per l’acqua, stoppacci da fucile, fiaschette spezzate, scatole di carne conservata: bottoni, biglietti da visita, ma non un pezzo d’arma, una daga, un revolver, un coltello, un temperino”. Dopo la battaglia gli abissini fecero infatti un repulisti generale. Ma lo spettacolo più terribile era dato dalle tombe e dalle ossa sparse. Ecco cosa videro gli autori del volume:
“[…] teschi ruzzolati qua e là dalle iene che li spolparono; degli stinchi portanti ancora dei pezzi di calzone […]; di costole, vertebre, dita, femori, mani è disseminato il terreno: e fra questi avanzi di forti vitalità distrutte, spiccano sinistramente insepolte tutte le colossali carcasse dei cammelli e quelle robuste dei muli e dei cavalli da trasporto […]. Le sepolture poi sono un’irrisione […] le fosse furono fatte a una profondità minima: sicché sui morti si gettarono poche palate di terra, e dei sassi. Non mai tanti però, da impedire che le iene di notte, attratte dall’odore di sostanze organiche putrescenti, non vengano a profanarle, a scomporle, asportando qualcheduna di quelle povere ossa”.
A chi avesse voluto ascoltare, Dogali era già un primo campanello di allarme dell’impreparazione italiana. Molti furono i morti per la mancanza di soccorso. La colonna Tanturri, quando arrivò sul campo di battaglia per salvare i sopravvissuti, era talmente terrorizzata dalla terribile fama dei soldati di Ras Alula, che esplorò solo un versante del poggio, lasciando agonizzare sotto un diluvio decine di soldati feriti che si sarebbero potuti agevolmente soccorrere. Per tre giorni arrivarono decine di ferite agli avamposti, nudi, inebetiti e insanguinati. Tra realtà e leggenda, come ha scritto Angelo Del Boca, “[…] Dogali, oltre che una sconfitta, riassume tutti i difetti del colonialismo dilettante degli italiani: imprevidenza, iattanza, disprezzo dell’avversario, eroismo di chi non ha scampo e alla fine preferisce la morte al tribunale militare”. Il generale Genè ordinò alle truppe di ritirarsi nel vecchio campo trincerato dei primi mesi dello sbarco, e pensò addirittura di allearsi coi dervisci sudanesi per difendere Massaua, dimenticandosi che gli italiani erano giunti proprio lì perché gli inglesi li avevano spinti in quest’avventura per preservare il porto dall’occupazione mahdista!