Montagne, miti, enigmi. Il monte Sinai

Le montagne sono da sempre considerate l’ambiente ideale per coltivare lo spirito, il luogo privilegiato in cui si ritirano gli eremiti e su cui sorgono i templi. Rappresentano infatti, in tutte le culture umane e in tutte le religioni, i luoghi in cui l’uomo si sente più vicino alla divinità.

In Asia tutte le strade vengono dall’India. Il Monte Kailàs (anche conosciuto come Monte Meru nell’epica induista) è il luogo sacro della catena dell’Himalaya che ha influenzato maggiormente la cultura indiana: la sua influenza valica gli stessi confini geografici dell’India ed è presente in tutta l’Asia, Cambogia compresa.

Attraverso un affascinante viaggio all’interno delle strutture archetipali dell’immaginario, è infatti possibile riconoscere il mito del Kailàs nelle grotte di Ellora, nell’India centrale, così come nelle “shikhara” (torri) del Khajuraho, posizionata a sud di Benares e famosa nel mondo per le sue sculture, nei “chorten” del Tibet, o nelle pagode birmane, thailandesi e – appunto- nelle torri cambogiane di Angkor, o nei templi di Bali o negli “stupa-mandala” di Borobudur in Indonesia.

Il monte Kailàs è la “Montagna” per eccellenza, la sua sommità bacia il cielo ed è un vero e proprio “ombelico del mondo”. “V’era, un tempo, un picco del Monte Meru famoso nel trimundio. Questo picco traeva la sua discendenza dal Sole ed era chiamato Luminare; era ricco di ogni sorta di gemme, incommensurabile, inaccessibile a tutte le genti. Là, sul pendio montano adornato d’oro e di minerali, il dio Shiva stava assiso come su un divano, rifulgendo di intenso splendore…”, si legge nel” Mahabharata”.

Come è possibile che il Kailàs, una montagna di appena 6000 metri, sia considerata così importante, quando ve ne sono di ben più alte e imponenti nella catena himalayana? Quali sono le ragioni che fanno del Kailàs la montagna più sacra del mondo? Cosa contribuisce a fare di questa montagna un archetipo così radicato nell’inconscio collettivo dell’intero continente asiatico?

Il Kailàs (o Monte Meru) è al centro del mitico “Chaturdvipa”, il Continente – Mondo visto come un fiore di loto a quattro petali della cosmogonia vedica, ed è venerato da quattro religioni. Per l’Induismo, come sopra illustrato, è il regno di Shiva, il dio del “Linga” (fallo) e delle pratiche ascetiche, il grande Distruttore e Trasformatore. Per il Buddhismo è la dimora di Sanvara, una manifestazione irata di Sakyamuni, ritenuta l’equivalente di Shiva. Anche il Jainismo venera il Kailàs, in quanto il suo primo santo lì raggiunse il nirvana. L’antica religione “bòn” del Tibet vede in esso la montagna dalla svastica a nove piani, sulla quale scese dal cielo il fondatore.

Dalla stilizzazione della figura del Kailàs e del suo “jojoba”, l’albero sacro da cui sgorga il Gange e i fiumi più importanti del sub – continente indiano, hanno preso forma, oltre alle torri – pagode (dette “Meru”) dell’Indonesia e le splendide “shikhara” (torri) del Khajuraho (vicino a Benares), gli stessi “stupa” buddhisti.Il centro del diagramma induista è pertanto occupato dal Monte Meru, considerato l’asse del mondo, e quindi assimilato al corpo immateriale della divinità.

In Giappone, all’epoca degli dei, la parola non era prerogativa degli umani. Anche le rocce, i sassi, gli alberi e le montagne potevano esprimere i loro sentimenti con le parole. Eihei Dogen, una delle massime figure della tradizione Zen, di cui fu fondatore in Giappone, scrisse: <<le montagne non mancano mai dei meriti propri, essere costantemente immobili e costantemente in moto. Bisogna per l’appunto studiare minuziosamente l’essenza di tale moto. Poiché il moto delle montagne deve essere come il moto degli uomini, non dubitate che siano simili >>. Un grande fotografo giapponese contemporaneo, Takeshi Mizukoshi, è diventato l’ambasciatore di questi tempi del Giappone arcaico. Le sue splendide fotografie in bianco e nero dell’Himalaya fanno parlare le cime innevate, gli strapiombi, i ghiacciai, i ruscelli, i tronchi degli alberi, le cascate. In queste fotografie straordinarie, permeate in ogni immagine dalla profondità della cultura shintoista, la Natura torna a parlarci, non solo delle sue bellezze ma anche dei suoi drammi e delle sue inquietudini, e dei suoi infiniti turbamenti. Come ha scritto il grande Fosco Maraini, che di montagne se ne intendeva davvero, <<…cose, oggetti, frammenti sparsi nel Mondo che ci circonda, normalmente considerati silenziosi e muti, frammenti inanimati che fanno parte di un paesaggio, rivelano in realtà segreti messaggi. Attraverso gli occhi di Takeshi entriamo a fare parte di una nuova Comunità >>.

Come nella tradizione indo – buddhista classica delle origini, anche in quella giapponese la Montagna ha un ruolo centrale. Nel Tao, antesignano del Buddhismo Zen, il paradiso è rappresentato dal Monte Horai, che ha qualità yang mentre l’acqua yin. Nello Shintoismo le montagne sono altrettanto sacre in quanto dimora degli dei (al pari del mitico Sumeru indiano, buddhista e jainista) e non dovrebbero mai essere profanate da costruzioni sacrileghe. L’intimo legame che lega il Buddhismo indiano originario e lo Shintoismo è dato peraltro, anche etimologicamente, dall’analoga funzione dei portali torana, che introducono nello spazio sacrale dello stupa (quelli di Sanchi, in India centrale, ti lasciano senza fiato…) rispetto ai torii, i grandi portali shintoisti di legno o pietra che segnano l’ingresso nell’area sacra di un tempio. Le tradizioni taoiste, shintoiste e del Buddhismo Zen sono sempre legate a specifiche montagne. Anche le pietre in Giappone hanno una loro vita, e con le pietre vengono creati i famosi giardini secchi del buddhismo Zen, i mitici e citati karesansui.

Nel Ventunesimo secolo rimane una montagna mitica che non è ancora stata identificata con certezza. Parliamo del monte Sinai. La penisola del Sinai e la regione desertica del Negev costituiscono da millenni un ponte di terra tra Asia e Africa e sono da sempre una zona di transito e, come gli altri deserti mediorientali, fanno parte di quell’ampio mosaico di territori periferici dove gruppi umani hanno sviluppato le loro culture. L’epopea del popolo d’Israele, dall’Egitto verso la Terra Promessa, ha reso quest’area un punto cardinale della mitologia occidentale. Quest’area, caratterizzata dai tratti assoluti dei suoi paesaggi, ha favorito e ispirato speculazioni mistico-religiose di valore universale per il mondo ebraico, cristiano e musulmano. Il ruolo del monte Sinai è centrale nei racconti biblici, come luogo di nascita del monoteismo e logos della Rivelazione.

Tuttavia, la Montagna della Rivelazione dove, secondo la Bibbia, sarebbero stati dati da Dio i Dieci Comandamenti, dove sarebbero state concepite le leggi che fino ad oggi costituiscono la spina dorsale dell’etica e della morale occidentale, sembra essere scomparsa nel nulla. La nozione della precisa ubicazione del monte Sinai si è persa ormai dal secondo millennio a.C. Ancora oggi vi sono ancora più di venti proposte di identificazione della Montagna di Dio. Secondo la concezione bizantina, essa doveva essere necessariamente la più alta, in quanto la più vicina al cielo, ma questa concezione non corrisponde a quella semitica. Il Jebel Musa e il Jebel Khaterine (nei cui pressi si è insediato il famoso monastero) non hanno alcun resto archeologico ricollegabile all’Esodo. Alla soluzione dell’enigma ha lavorato per tutta la vita l’archeologo Emmanuel Anati, che in un suo monumentale volume (“La Montagna di Dio”, 1984) scritto a seguito di accurate ricerche archeologiche, ha identificato il monte Sinai nell’attuale Har Karkom, una montagna situata nel Nord della penisola del Sinai, in quella sezione denominata deserto del Negev che oggi è parte dello stato d’Israele. Har Karkom significa “Monte dello zafferano” (Har = monte; Karkom = zafferano). Negli anni Cinquanta si trovano anche riferimenti a questa montagna con il nome di Har Geshur. I beduini la chiamano Jebel Ideid, e tale nome appare anche sulle carte geografiche risalenti al periodo tra le due grandi guerre, in cui l’area era sotto mandato britannico. Secondo gli arabisti il nome potrebbe significare “Monte delle Moltitudini” o “Monte della Preparazione”, mentre nel locale dialetto beduino Tarabin significa “Monte delle Ricorrenze”. Con un’altitudine di m 847 slm, è visibile da grandi distanze, sia da sud, sia da est; domina il paesaggio del deserto Paran e la si vede dalla Transgiordania, dai monti di Edom, a oltre 70 km di distanza.

Dopo ricerche durate più di trent’anni, Anati ha dimostrato che l’Esodo è avvenuto quando Madianiti, Amalekiti, Edomiti, e le altre tribù che la Bibbia infatti nomina, frequentarono davvero Har Karkom. Ciò dimostra che Esodo, Deuteronomio e Numeri non sono mito, e la narrazione biblica va a innestarsi nella storia. Un immenso patrimonio di reperti, chiuso in casse nei magazzini in Israele, attende solo di essere studiato da antropologi, storici delle religioni, teologi, esegeti e archeologi, che finalmente vedono coincidere i loro dati senza più contraddizioni.

Ma al di là del mistero di questa montagna sacra, è la stessa figura di Anati ad affascinare. Questo grande archeologo ha viaggiato molto, è nato in Italia, ha studiato in Israele, negli Stati Uniti e in Francia. La sua patria è diventata il pianeta terra. Viaggia per arrivare dove deve andare, non viaggia per diletto perché tutta la vita è un diletto. Viaggiare non vuol dire avere una casa dovunque. Forse la sua (e la nostra) vera casa è nel deserto, dove non c’è casa. Di origine ebraica, Anati ha tuttavia condivise esperienze anche con gli aborigeni australiani, con i contadini del Messico e con alcune popolazioni africane. Si porta dietro la tradizione dell’”ebreo errante” ed è sempre con le valige pronte, alla veneranda età di novant’anni.

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore