Culture dimenticate

C’è un libro che ho letto recentemente e che mi sento di consigliare. L’ha scritto Harald Haarmann e si intitola “Culture dimenticate” (Bollati Boringhieri, Torino 2020). In esso potrete conoscere le avvincenti storie di venticinque sentieri di sapienza smarriti dall’Umanità.

Oggi, seppur tardivamente, abbiamo compreso che la storiografia non può più essere eurocentrica, e che dobbiamo molto alle culture extraeuropee. Nonostante ciò, il modello eurocentrico continua a restare ancora profondamente radicato nelle teste della gente e nei libri di scuola. In fondo è il prodotto culturale del colonialismo occidentale.

La stessa strategia retorica occidentale individuò durante il colonialismo la negazione dell’intelligibilità dell’Africa come oggetto di conoscenza, postulandola come indecifrabile blank darkness. In realtà, l’Africa, così come altre parti del mondo, ha una storia negata che oggi meriterebbe di essere valorizzata e studiata anche nelle scuole.

Sempre con riferimento all’Africa, il libro citato esamina tre sentieri smarriti della storia africana, e in particolare: la leggendaria terra di Punt descritta nella Bibbia; il regno di Axum e la presenza della regina di Saba; e le mura ciclopiche della città di Grande Zimbabwe, un centro di commercio dell’Africa meridionale.

Oltre che per via mare, almeno dal terzo millennio a. C. i paesi bagnati dal Nilo, Egitto e Sudan erano a contatto anche via terra con la regione dell’odierna Eritrea ed Etiopia settentrionale. Nell’area di confine tra Sudan orientale, Eritrea ed Etiopia si svilupparono nel corso degli ultimi due millenni stati piccoli, ma autoctoni, insomma africani, dalla struttura sociale complessa.

Le relazioni dell’Egitto con questi territori “meridionali” sono documentate sia dalle cronache scritte sia dai ritrovamenti archeologici che ci narrano delle straordinarie imprese nella terra di Punt di Hatshepsut, la donna faraone. Ad esempio, proprio ad Adulis (a sud di Massaua) e da altre zone etiopiche provenivano diversi beni d’importazione egiziana.

Non vi sono molti dubbi che le relazioni tra Egitto e Africa nordorientale siano state molto durature. Non solo. Adulis sarà per secoli un luogo d’incontro e di scambio tra Egitto, Africa, mondo greco-romano, mondo semitico dell’Arabia meridionale e India, uno straordinario esempio di globalizzazione del mondo antico che, dopo la sua fine e la colonizzazione islamica, verrà replicato nel porto di Massaua, dove prosperò una florida comunità di commercianti Baniani (che era già presente quando nel 1520 arrivarono i Portoghesi).

È quasi impossibile stimare adeguatamente il significato che ebbe il commercio per la diffusione, lo sviluppo culturale e religioso e l’articolazione delle reciproche influenze tra mondo romano-mediterraneo e India. Una parte notevole di questi rapporti si svolgeva da tempo nell’area del mare Eritreo, cioè del Mar Rosso, del Golfo Persico e dell’Oceano Indiano e del Golfo Persico e Arabo.

Anche se i contatti tra Egitto, Mediterraneo e Bisanzio s’erano per lungo tempo svolti attraverso il Nilo, toccando anche gli imperi di Nubia e Axum, la porta d’ingresso principale era tuttavia proprio la costa del Mar Rosso, e in primo luogo l’antico porto di Adulis affacciato sul golfo di Zula. La località esisteva fin dall’epoca tolemaica, quando le rotte commerciali toccavano già l’India attraverso una navigazione di cabotaggio.

Buona parte di questi commerci, che andarono intensificandosi con lo sfruttamento dei monsoni, passava attraverso i centri maggiori dell’Arabia meridionale e dell’Africa nordorientale. I rapporti tra Roma, e poi Bisanzio, con Axum, si svolgevano principalmente proprio attraverso Adulis, che per parte sua era in contatto diretto con l’India.

Anche sull’antica antica civilizzazione dello Zimbabwe il colonialismo occidentale dei primi anni del Novecento formulò delle tesi assai sbrigative e condizionate dal razzismo. Uno dei principali luoghi-comuni che attraversavano i vari ambiti del sapere coloniale era la convinzione secondo la quale, se in una data colonia africana si rinvenivano monumenti archeologici di valore, questi dovessero essere sempre attribuiti all’opera di maestranze esterne.

Alberto Pollera ripeté queste affermazioni anche con riferimento ai resti di Axum, delle Chiese di Lalibela e degli antichi conventi etiopici. Così come fino agli anni Trenta si sarebbe affermata la stessa cosa anche per la Birmania e le Indie olandesi e agli inizi del Novecento per la Rhodesia. Lidio Cipriani addirittura sostenne con inaudita violenza in un suo saggio del 1936 che l’Etiopia rappresentava un ‘assurdo etnico’. In quest’opera egli effettuò anche una specifica espunzione degli Abissini dalle razze semitiche assimilandoli ai ‘veri negri’.

Sempre Cipriani sostenne che l’antica cultura dello Zimbabwe poteva ben avere avuto luogo per mezzo di popolazioni indigene negre, in un momento di relativo progresso, per poi decadere rapidamente a causa dell’incapacità psichica (congenita) della razza nera di sostenere a lungo lo sviluppo. Prova di questo regresso biologistico erano i Boscimani, minacciati di estinzione, la cui organizzazione sociale era a suo dire una forma impoverita di cultura che in passato era caratterizzata da manufatti litici più vari e progrediti, e che la presenza bantu aveva relegato ai margini di territori desertici.

Ancora una volta dobbiamo pertanto abbandonare i preconcetti coloniali se vogliamo veramente imparare la storia africana e cambiare le nostre prospettive sulla storia del mondo

(nell’immagine: Ati, cioè la donna faraone Hatshepsut, da un fregio del tempio egiziano di Deir el-Bahari)

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore