Africa. Le collezioni dimenticate

Fino al 25 febbraio 2024 si terrà a Torino (Musei Reali, sale Chiablese) una mostra dal titolo Africa. Le collezioni dimenticate.

La mostra affronta il tema della colonizzazione italiana dell’Africa, partendo dal patrimonio conservato in tre istituzioni pubbliche di Torino. Al di là degli oggetti pregevoli oggetto di esposizione, quello che mi interessa soprattutto rimarcare subito è la prospettiva e lo sguardo che questa pregevole mostra si propone, e sempre con grande rigore scientifico.

Gli oggetti esposti non si mostrano più infatti come la risultante della spoliazione coloniale, come bottini di guerra. Gli oggetti finalmente evocano la cultura e le tradizioni dei popoli a cui sono stati sottratti.

Sottratte all’oblio, queste opere sono state catalogate e restaurate. I curatori hanno anche sentito il bisogno di confrontarsi con esperti di storia africana e con le comunità di origine per costruire un dialogo, un ponte interculturale e una chiave di accesso alla realtà contemporanea dei nuovi cittadini, provenienti in particolare dal Corno d’Africa.

I musei italiani sono ancora pieni di oggetti che sono stati predati durante il colonialismo. E la mostra di Torino è un primo esempio concreto per sottrarre all’oblio e alla rimozione la nostra storia coloniale e la storia dei popoli che hanno subito la violenza coloniale.

È un primo passo importante per rivoluzionare la nostra museologia e per renderla finalmente impegnata verso il dialogo e la cooperazione internazionale, alla conoscenza della diversità.

Il contesto coloniale non fu a dire il vero solo violenza e sopraffazione, ma vide svariate forme di interazione, resistenza, adattamento e anche di collaborazione tra colonizzati e colonizzanti, spesso mossi da interessi legati al prestigio e all’ascesa sociale.

La storiografia degli ultimi anni ha accesso i suoi focus su questi aspetti, e soprattutto sull’approccio dei funzionari coloniali alla diversità africana. Un approccio antropologico ed etnografico comunque viziato, durante il periodo liberale, dal paternalismo, e dal razzismo biologico durante il fascismo, come ci ha testimoniato l’opera di Lidio Cipriani.

La rappresentazione presente nella mostra, seppur parziale, può contribuire alla conoscenza dell’Altro, della diversità africana, e al contempo scoprire parte di noi stessi che ancora ignoriamo, a beneficio di un progetto di futuro comune.

Passando all’esposizione, gli oggetti pregevoli sono davvero molti. Questi oggetti, frutto delle incette coloniali, oggi possono essere visti come veri e propri ambasciatori delle culture africane.

Sono rimasto colpito dalla bellezze dei coltelli da lancio degli Azande, popolo antropofago che ospitò Carlo Piaggia, e dal grande tamburo negarit raccolto da Oreste Baratieri a seguito della battaglia di Senafè (Eritrea). Emblema di potere e di onore militare, questo grande tamburo era suonato per proclami e annunci ufficiali, e in guerra serviva a richiamare le truppe e incitare i soldati a combattere.

Dopo le grandi bandiere colorate sottratte ai Dervisci del Mahdi, passando all’ambito somalo è esposta una stupenda sella per cammello donata dal Mad Mullah a Ferdinando di Savoia. Davvero regale anche il paramento etiope [in amarico lamd] che ricorda nelle forme le spoglie del leone, simbolo dell’autorità regale in Etiopia. Il lamd veniva assegnato dall’imperatore ai guerrieri più valorosi.

Imperdibili sono anche alcuni filmati dell’epoca, tra cui quello relativo alla Società Agricola Italo Somala (SAIS) che creò il villaggio del Duca degli Abruzzi sullo Uebi-Scebeli (Il Nilo somalo che il Duca esplorò), indimenticabile esempio che, anche grazie ai favori della COMIT di Giuseppe Toeplitz, seppe operare senza le forme dello schiavismo che il fascismo utilizzò ampiamente in terra somala.

Sempre il Duca degli Abruzzi, come noto, condusse  anche la famosa esplorazione del Rwenzori, tra i Monti della Luna già identificati da Tolomeo. L’unico oggetto che egli riportò in Italia da questa spedizione  è un grande tamburo conico-cilindrico bipelle chiamato ngoma nella lingua bantu di quell’area, e che gli fu donato dal re Kasagama.

Ciascun regno africano possedeva un tamburo sacro considerato non tanto come uno strumento musicale  quanto la personificazione stessa dell’autorità regale, dotato di vita propria.

Col suo dono, il re Kasagama volle dare un segno tangibile della sua volontà di collaborazione e di rendere il dovuto omaggio a un europeo di stirpe reale, il Duca degli Abruzzi, che volle morire nel villaggio somalo che aveva creato e la cui sepoltura è stata purtroppo vandalizzata da ribelli somali.

Lo spirito del dono di questo oggetto straordinario apre nuove prospettive di solidarietà e collaborazione che ci proiettano verso il futuro.

Ed è proprio con l’esempio del Duca degli Abruzzi e con l’eco dei tamburi africani che dobbiamo ripensare al nostro punto di vista sull’Africa ed avviare un cammino, ancora difficile ma necessario, di decostruzione della colonialità.

[nell’immagine: Monastero di Debra Libanos – Etiopia – prima della strage ordinata da Rodolfo Graziani nel 1937, foto di Walter Mittelho]

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore