L’Isola (Sardegna, periferia dell’anima)

Cari Amici, con queste brevi pagine vi parlerò di un territorio antico che attende, tra passato e presente, nel limbo di un tempo sospeso. Di una terra che fu antico avamposto dei Fenici, che ascoltava il respiro dell’Africa e dell’Oriente, popolata da un’oscura genia parente di Annibale.

Battuta da tutti i venti e abitata da tutti i profumi e i fetori, la Sardegna è da sempre terra di speranze, di approdi e di addii, di desolazioni e di meraviglie, di chiusure e di aperture, di selvagge montagne e di orizzonti marini. In essa è facile perdersi ma anche ritrovarsi.

Si tratta di un itinerario sentimentale, personale, che da furtivi momenti di passaggio invita a praticare altre consapevolezze, altri sguardi. Sono da sempre irresistibilmente attratto dai luoghi persi, amplificati dall’assenza e dall’essenza delle cose, dalle storie minime, dai dettagli, dall’eco delle storie lontane, quasi dimenticate dalla cacofonia del presente.

Così i territori apparentemente bui e abbandonati diventano icone del presente, che sottotraccia brulicano di significati e di memorie. A saperli davvero ascoltare, emergono dal sottosuolo di questi territori immagini inespresse, rivelazioni che ci mettono in guardia dalle insidie della superficie del presente.

Si sa, la memoria è necessariamente selettiva, e scava nel deserto dell’oblio degli anni, nella testarda ricerca di frammenti che diano ancora significato. E quando li ritrova è come se dalle profondità carsiche emergesse un’acqua freschissima, più fresca di quella di Su Cologone, e a cui ci abbeveriamo con avidità.

Siamo ormai tiranneggiati dal superfluo e dai non-luoghi, ma la Sardegna per fortuna non è ancora così. Memorie e identità resistono davanti all’avanzata inarrestabile del turismo di massa e dell’omologazione consumistica. I suoi territori più fragili e vulnerabili custodiscono ancora dimensioni spirituali e mistiche di bellezza e di armonia, oltre a testimonianze storiche costellate dalla sofferenza e dell’abbandono.

Dedico queste pagine alle anime erranti, ai viandanti nostalgici, ai pellegrini della memoria e a tutti coloro che sono sempre alla ricerca dell’autenticità.

I racconti verranno pubblicati a puntate. Buona lettura

Caprera e l’illusione di Garibaldi

Le isole conservano, scriveva Mario Soldati[1]. Dilatano gli orizzonti, li rendono evanescenti ed illusori. La Maddalena fu, dopo Torino, il luogo d‘Italia che Soldati amava di più[2], anche se non comprendeva bene i motivi di questa preferenza (sono sue parole) violenta e appassionata.

Molto tempo è passato ma nulla è cambiato rispetto al «momento dionisiaco dell’arrivo e dello sbarco». Le acque di freddo blu, quasi nordico, increspate dalla perenne brezza, il vento che non cessa mai di soffiare tra isola e isola, le rocce modellate dall’erosione di antichi ghiacciai, il granito che si staglia nell’orizzonte che disegna forma bizzarre di animali giganteschi, la macchia mediterranea che rilascia i suoi profumi e che combatte da sempre contro la salsedine. E in fondo, laggiù, sullo scoglio di Caprera, «la biancheggiante casa di Garibaldi, l’unico luogo sacro, l’unico ancora vivo del nostro Risorgimento: l’unico non provinciale, ma interamente umano e progressivo»[3].

Garibaldi morì il 2 giugno 1882. L’Italia stava pensando ad altro, ad acquistare la baia di Assab dall’armatore Raffaele Rubattino, che l’aveva rilevata nel 1869, in corrispondenza dell’apertura del Canale di Suez grazie all’intercessione del padre lazzarista Giuseppe Sapeto. Erano gli anni in cui Manfredo Camperio si fece instancabile propugnatore della necessità della penetrazione italiana in Africa. Il mito della quarta sponda avrebbe da lì a poco portato l’Italia ad invadere militarmente Massaua.

Il Garibaldi di Caprera era ormai un uomo solo e sconfitto. L’Eroe dei due mondi era da tempo diventato quell’Aureliano Buendìa protagonista di Cent’anni di solitudine di Garcia Màrquez. La forza dei suoi sogni di libertà per il genere umano svaniva così nell’orizzonte indefinito delle sue mille battaglie, negli evanescenti orizzonti marini di un’isola perduta e selvaggia, che assomiglia al cratere di un vulcano sopito. Sulle sue rocce grigie, spicca ancora oggi una casa bianca ad un solo piano. Accanto ad essa c’è un belvedere e un mulino a vento dalle pale rosse. Tutto intorno una quantità infinita di rocce granitiche dove vengono ad infrangersi le onde.

Fino alla fine del XVIII secolo Caprera rimase disabitata, e ricevette il nome dalle capre selvatiche che si trovavano in gran quantità. Il primo suo abitante fu un brigante corso, che si rifugiò con moglie e figli. Nel 1840 le isole dell’arcipelago sardo furono messe in vendita dal governo sabaudo. Una parte di Caprera venne acquistata da un inglese, che dopo aver costruito una casetta vi morì poco tempo dopo. La vedova si trasferì sull’isolotto della Monetta. Garibaldi divenne il terzo proprietario di Caprera, che l’acquistò nel 1856. A quel tempo il suolo di Caprera era completamente ricoperto di massi di granito ed impedivano qualsiasi forma di vegetazione.

Oggi è possibile giungere a Caprera in automobile. Un ponte collega l’isola alla Maddalena, dove è in servizio dalle prime ore del mattino un comodo collegamento di traghetti da Palau. Nell’Ottocento il battello Livorno-Caprera faceva servizio solo una volta alla settimana.

Il 18 giugno 1872 Aleksandra Toliverova, una scrittrice russa per l’infanzia che aveva curato a Roma i garibaldini feriti e fatti prigionieri in seguito alla disfatta di Mentana, nelle prime ore del mattino salì sul battello Piemonte, lo stesso che Garibaldi nel 1860 utilizzò con i suoi Mille per sbarcare in Sicilia e liberarla dai Borboni. La colpì soprattutto un cavallo, reduce dalle molte campagne garibaldine, e che stava per essere ricondotto “in pensione” proprio a Caprera. Presso quella nave «sbucavano dall’acqua, con inaudita imprudenza, i delfini ad intere decine. Uccelli di ogni specie e grandezza si lanciavano sui pezzi di pane che gettavano i passeggeri», scrive Toliverova[4].

Garibaldi trascorse prevalentemente a Caprera gli ultimi dieci anni della sua vita, e furono anni malinconici. La sua salute declinava progressivamente. Le ferite d’Aspromonte e l’artrite gli impedivano di scorrazzare per l’isola e di cavalcare. In cambio ebbe una nuova moglie, Francesca Armosino, una giovane donna analfabeta che gli darà dei figli, e una famiglia ristretta.

Furono tanti i commilitoni, i curiosi, i visitatori intorno a lui, tra cui la citata Toliverova. In quegli anni Garibaldi si fece agricoltore, e iniziò a occuparsi del dissodamento del duro terreno dell’isola: così apparvero le prime piante aromatiche, i primi cipressi e gli alberi da frutto. Alla morte del fratello, che gli lasciò quarantamila franchi, fece costruire una piccola nave con cui portò materiale da costruzione e realizzò una piccola casa, e in seguito piantò ulivi, alberi d’arancio e limoni. Con questo piccolo battello trasportò da Nizza, la sua città natale, terra fertile con cui realizzò un giardino. Ancora oggi, ogni cespuglio di rosa ha la sua storia da raccontare.

La stanza di Garibaldi ha una finestra che dà sul giardino. Il letto è di ferro, e al posto delle coperte aveva un poncho militare e alcune sedie. Al capezzale un ritratto di Anita ornato da fiori e un medaglione con una ciocca dei suoi capelli. Garibaldi a Caprera faceva una vita semplice. Si alzava alle quattro e beveva latte di capra, e poi andava a fare una piccola passeggiata. Verso le sette leggeva o scriveva qualcosa e dettava delle lettere. Pranzava alle otto del mattino e alle otto di sera.

Dal 1873 Garibaldi fu costretto a camminare con le stampelle, e dal 1880 dovette stare sulla carrozzina: non godette di vitalizi o pensioni, e dovette sopravvivere con i risicati bilanci della sua azienda agricola di Caprera. Registrò anche disavventure economiche[5]. Per arrotondare, riprese la sua attività di scrittore, adottando il genere del romanzo storico. Oltre che per fini pratici, Garibaldi scrisse per fini morali. Nella sua prefazione a Clelia volle ricordare «all’Italia tutti quei valorosi che lasciarono la vita sui campi di battaglia per essa».

La Toliverova dice di aver trascorso a Caprera i giorni più belli della sua vita in compagnia di Garibaldi. Nei ricordi di questa scrittrice russa appaiono anche due cavalli, il Marsala e il Mentana, che dopo aver prestato i loro servizi durante le campagne garibaldine, si godevano la loro meritata vecchiaia, andando a zonzo per i campi e tornando per la loro razione di pane. Con essi c’era anche Pio Nono, un asino che ragliando pretendeva allo stesso modo dei cavalli di essere sfamato.

Davanti alla casa-museo di Garibaldi è stato posizionato un piccolo rifugio per gatti. In questa pace tutto ci parla dell’Eroe e del suo mito romantico. Oggi è lunedì, ed è sospeso ai visitatori l’accesso al Compendio garibaldino; pertanto, non mi resta che sedermi in raccoglimento. A pensare all’impareggiabile illusione che è l’Italia, un paese splendido e allo stesso tempo orribile, che sanguina ancora per la sua dolente identità, e che ha cancellato da tempo il suo mitico Eroe.

(nella foto: immagine della Maddalena, foto dell’autore)


[1] Mario Soldati, Fuori, Mondadori, Milano, 1968, p. 43

[2] Ivi, p. 48

[3] Ivi, p. 49

[4] Aleksandra Toliverova, Giuseppe Garibaldi, Sellerio, Palermo 1993, p. 24

[5] Nel 1869 Garibaldi vendette allo Stato per 80mila lire il Princess Olga, un panfilo donatogli da ammiratori inglesi, ma fu derubato dall’intermediario, che si impadronì del denaro incassato.

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore