L’Eritrea (che non c’è) di Tommaso Giartosio

Giartosio è un eccellente poeta e ha pubblicato quest’anno per Einaudi un libro dal titolo enigmatico (Tutto quello che non abbiamo visto. Un viaggio in Eritrea). Per essere un itinerario di viaggio, il saggio si presenta in modo davvero singolare. È scritto molto bene. Al limite della perfezione lessicale. A tratti anche suggestivo. Più che un reportage si tratta comunque di un complesso viaggio interiore, dove la realtà eritrea viene progressivamente trasfigurata, interiorizzata e poi rappresentata con un approccio molto personale. L’approccio ha purtroppo scarsa profondità storica. E spesso appare anche superficiale.

Giartosio (p.5), pur approcciandosi all’Eritrea tra mille iniziali paure (per le malattie, per il terrorismo presunto ecc.), dichiara di voler ‘ammirare’ (p.5) ma spesso, forse inconsapevolmente, si esprime con modalità poco rispettose e veritiere. Paragona infatti una festa di matrimonio a “un raduno di figuranti dell’Aida” (p.21), forse non comprendendo che la Comunità è ancora un valore autentico e non folcloristico per gli eritrei, e racconta Massaua – raro esempio della globalizzazione del mondo antico – come un “reticolo di macerie abitate da una moltitudine miserabile” (p.41), senza preoccuparsi di riferire cosa furono davvero il Fenkel e le devastazioni compiute dall’aviazione etiopica, né cosa abbia rappresentato questa città nel corso dei secoli. Restando alla superficie delle cose, alla fine (anche inconsapevolmente) si dicono delle crudeli banalità.

Giartosio racconta anche cose alquanto discutibili, come – ad esempio- quando visita l’ex Cotonificio Barattolo, la fabbrica coloniale di Asmara rimessa in piedi dal nostro mitico Pietro Zambaiti, un bergamasco illuminato che in Italia le banche hanno fatto fallire e oggi ha creato un’azienda modello dando lavoro a centinaia di operaie. Giartosio (p.52) afferma infatti che “un direttore, un europeo [senza farne il nome, ndr] ci raccontava che molti uomini […] fanno lavorare le mogli e la sera le picchiano”. Dichiarazione nettamente smentita dallo stesso Zambaiti e che, per chi conosce bene la realtà asmarina, suona come una gigantesca fandonia.

Giartosio, nei suoi rapidi excursus e flash, parla dell’Eritrea come un paese in “abissale isolamento” (p.99 e 101), quasi fosse l’Albania di Enver Hoxha (peccato per lui che in Eritrea non sia mai esistito il culto della personalità del suo presidente), senza tenere conto che questa condizione di isolamento è stata per decenni alimentata proprio dagli embarghi della comunità internazionale, comminati ingiustamente al popolo eritreo in base a teoremi mai dimostrati, come quello di aver appoggiato i guerriglieri somali di al-Shaabab.

È lo stesso autore a riconoscere comunque (p.107) che l’immagine propinata sempre dai media della “dittatura spietata” è una pseudo verità che fa davvero comodo ai più.

Se ieri e oggi abbiamo visto e vediamo morire centinaia di eritrei (o che si spacciano per tali) nel Mediterraneo, la colpa è anche e soprattutto di una comunità internazionale che ha creato il paradigma dell’eritreo quale automatico rifugiato politico per cercare di far crollare dall’interno l’Eritrea, alimentando migrazioni di massa da un paese già scarsamente popolato (molti di questi giovani in fuga stanno scappando dal servizio militare senza data, ma poi spesso ritornano).

Anche gli USA, che in Africa orientale hanno sempre fatto negli ultimi decenni il bello e il cattivo tempo insieme ad altre superpotenze, come ha recentemente dichiarato al Corriere della Sera Luigi R. Einaudi, nipote del grande presidente italiano Luigi Einaudi, dovrebbero cambiare finalmente approccio almeno su tre cose: capacità di ascoltare gli altri; rispetto della sovranità; comprendere che la democrazia non si può esportare ma si costruisce dentro i paesi.

Ed è sempre e ancora questa comunità internazionale che continua a parlare di crimini contro l’umanità commessi dal regime eritreo, senza mostrare prove e con la solita finalità di destabilizzare un paese smaccatamente ‘non allineato’ ai voleri dell’Occidente e che non permette infiltrazioni neocolonialiste.

Forse d’impatto ma poco rispettose sono anche le affermazioni di Giartosio formulate sul fatto che il cimitero italiano di Asmara sia più “spettrale di quello di Dogali” (p.120). Ancora una volta, l’autore resta condizionato dall’immagine delle “tombe avviluppate da un intrico di sterpi e rovi degno del castello della bella addormentata” (p.120), e preferisce giocare con l’arcaicità dei nomi degli italiani ivi sepolti (p.121). Anche su questo aspetto, occorrerebbe maggiore pietas. Perché, come dice un antico detto ebraico, i morti di ogni famiglia sono legati come le radici di un albero, i cui rami sono i vivi, e i vivi a loro volta sussistono solo per merito dei morti.

Quando Elie Wiesel, il grande scrittore di origini ebraiche scomparso nel 2016, ritornò nella sua città natale, un piccolo centro della Transilvania chiamato Sighet dove visse fino alla deportazione nel 1944 ad Auschwitz III-Monowitz, quella città era irriconoscibile, anche se molti dei suoi principali edifici erano al loro posto. L’unico luogo che lo faceva sentire ancora a casa era proprio il cimitero ebraico: lì incontrò un vecchio ebreo, spuntato chissà da dove, che cominciò a recitare un canto funebre.

Al cimitero militare di Cheren, qualche anno fa ho assistito a una scena indimenticabile. Davanti alla tomba del generale Lorenzini, che volle essere sepolto insieme ai suoi soldati eritrei, un vecchio ascaro ormai ultranovantenne sopravvissuto alla terrificante battaglia del 1941, che vide la fine dell’AOI, intervenne davanti alla maleducazione di alcuni visitatori. Li zittì dicendo di non alzare la voce e di comportarsi con compostezza, anche perché davanti a loro c’era ‘la luce’. Sì, effettivamente la luce di quello che fu la Comunità italiana in Eritrea oggi la possiamo vedere soltanto nei cimiteri, visto che (soprattutto per nostro demerito) siamo riusciti incredibilmente a far chiudere la nostra secolare scuola di Asmara.

Per quanto riguarda la “desolata sinagoga di Asmara” (p.121), occorrerebbe anche conoscere la storia straordinaria della Comunità Ebraica della capitale eritrea, che ci è stata raccontata dal commuovente libro di Samuel M. Cohen e Mansoor J. Cohen (Asmara. Ebrei in Eritrea), che saluto con affetto.

Oggi le immagini dei cimiteri italiani in Eritrea, e le immagini della Sinagoga di Asmara, senza minian e senza voci di preghiera, restano purtroppo le ultime testimonianze esistenti, che dovremo conservare e trasmettere, di comunità perdute ed egualmente disperse. E che, a mio parere, dovrebbero essere lette e raccontate con occhi diversi.

Solo nelle pagine finali si mostra l’arcano del libro di Giartosio. Egli scopre che “ciò che ora veramente mi interessa è altro: quello che non abbiamo visto” (p.159). Sotto questo punto di vista, Giartosio appare sincero. In effetti, vedere e comprendere la realtà eritrea in tutte le sue mille sfaccettature non è impresa da poco.

Non me ne voglia Giartosio. Un conto è parlare di sé e un conto è disquisire di un paese difficile, dalla storia antica, che combatte da un secolo, e che sta ancora combattendo per non soccombere, dopo decenni di guerra di liberazione e migliaia di martiri, alle nuove politiche neocolonialiste, e che sta insegnando al mondo il valore della dignità e della resilienza. Un esempio che potrebbe essere presto seguito da altre nazioni africane.

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore