Le donne, il fascismo e l’Africa Orientale

Il paradigma coloniale italiano fu quasi esclusivamente maschile. Come ho scritto nei miei volumi apparsi nel 2020 intitolati “Esploratori lombardi” e “Patria, colonie e affari”, la presenza italiana in Eritrea fu quasi totalmente maschile. I militari, i funzionari dell’amministrazione coloniale e i coloni erano quasi tutti uomini. I codici erano interamente maschili e solo raramente facevano capolino eteree presenze femminili. Le donne europee presenti nella colonia erano rarissime, e perlopiù presenziavano alle feste e ai ricevimenti ufficiali. Discorso a parte va ovviamente fatto per i rapporti intrattenuti tra i dipendenti, civili e militari, dell’amministrazione coloniale e le donne autoctone. Madame e sciarmutte contribuivano ad attenuare il tedio e la solitudine dei bianchi. Le foto delle “Veneri nere” si sprecavano in pose esplicite, rinforzate dalla volgarità delle didascalie, e alimentarono un certo commercio.

Una pioniera della presenza delle donne italiane in Eritrea fu senza dubbio Rosalia Bossiner. Bellunese di origine, sposando il colonnello Pianavia Vivaldi, comandante delle truppe di Asmara, seguì il marito nella Colonia Eritrea dal 1892 al 1896. Scrisse un libro (“Tre anni in Eritrea”, 1901) nel quale raccolse molte osservazioni sui riti e costumi delle popolazioni indigene, il tutto arricchito da fotografie da lei stessa scattate. Era un’eccellente cavallerizza e si adattò perfettamente al modo di vivere spartano tipico dei militari. Le sue pagine sono scritte con uno stile raffinato e rivelano la sua abitudine alle buone letture. In un clima di generale razzismo e pregiudizio di genere, ebbe parole di genuino rispetto per la cultura eritrea, anche se viziate da un certo paternalismo. Nel suo volume trasognato descrisse anche il “traditore” Bahta Agos, cioè colui che dopo aver giurato fedeltà all’Italia si ribellò davanti agli espropri selvaggi del generale Baratieri.

Fino al 17 luglio 1919 nel nostro paese vigeva ancora l’istituto giuridico dell’autorizzazione maritale. Fu proprio allora che venne abrogato l’art.134 del codice civile del Regno d’Italia in vigore dal 1865 (il c.d. “codice Pisanelli”), e che per oltre cinquant’anni aveva sancito la supremazia dei mariti sulle mogli: queste ultime, infatti, per mezzo secolo non poterono donare, alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, costituire polizze né transigere o stare in giudizio senza il via libera del coniuge. L’autorizzazione doveva essere conferita per atto pubblico, e le eccezioni erano rare.

Nonostante tale abolizione, intervenuta nell’anno (il 1919) in cui prenderà piede il movimento di San Sepolcro e i Fasci di combattimenti, con la marcia su Roma (ottobre 1922) il fascismo diede comunque delle risposte sessiste e repressive alle rivendicazioni di libertà, giustizia ed uguaglianza che provenivano dal mondo femminile, facendo tornare indietro le lancette dell’orologio all’epoca in cui vigeva l’autorizzazione maritale. In verità, con la Grande Guerra le donne italiane erano uscite di fatto dal loro tradizionale ruolo di accudimento familiare, visto che gli uomini erano al fronte ed esse cominciarono a prenderne il posto in ambito lavorativo, riscoprendo capacità e risorse che erano state da secoli soffocate. Ma questo processo di emancipazione verrà presto stroncato dal fascismo nazionalista. Disattendendo i proclami sansepolcristi, Mussolini richiuse nuovamente la donna all’interno della famiglia, assegnandole il ruolo di madre per vocazione, obbedente e serviente, secondo il modello del “fiat” mariano. Fascismo e nazionalismo cattolico, irredentismo e colonialismo portarono così a quella che fu definita da Descher “la dinamica mariana della storia”.

Negli anni Trenta il regime fascista salutava ancora ambiguamente i suoi sudditi femminili con la promessa di vita moderna e partecipazione politica, che apparve particolarmente seducente nelle colonie africane, dove le organizzazioni politiche fasciste invitavano le donne a prendere pieno vantaggio della loro superiorità razziale e delle funzioni sociali di genere. Significativamente, durante le campagne militari etiopi, il regime sperimentò nuove possibilità di affermazione per le cittadine italiane. Mentre la macchina della propaganda fascista celebrava la donna oscillando tra celebrazione della fattrice e massaia rurale e la figura idealizzata della cittadina, le donne che viaggiarono nell’Africa coloniale sperimentarono condizioni materiali che richiedevano l’adesione a nuovi modelli di domesticità e femminilità. In tale contesto, appaiono degne di esame le esperienze di due donne: Anna Messina e Alba Felter.

Al centro dell’attenzione di Anna Messina e del suo “Cronache del Nilo” (1940) non fu solo la donna borghese egiziana o occidentale, ma anche le classi domestiche subalterne, e tutta la serie dei maggiordomi, dei cuochi e delle domestiche la cui intera vita ruotava attorno a quella dei loro datori di lavoro. Il libro, narrato in prima persona, è basato su materiale autobiografico e ricostruisce l’educazione borghese dell’autrice nell’Egitto degli anni Trenta. Il padre di Anna Messina era il magistrato siciliano Salvatore Messina, nominato console in Egitto nel 1916 e trasferito presso i tribunali di Alessandria nel 1936. L’ambiente egiziano della famiglia Messina è, come in tutte le società coloniali, una comunità eclettica divisa da antagonismi di classe e frizioni politiche. Le donne europee, ad esempio, sono le mogli e le figlie di diplomatici, governatori e medici, e di norma socializzano e condividono pratiche sociali solo con le loro controparti egiziane, cioè le mogli e le figlie di avvocati, banchieri e ebrei o arabi uomini d’affari. Al di là delle differenze nazionali ed etniche, c’è sempre la solidarietà di classe che li lega insieme e li contrappone ad artigiani, operai, venditori ambulanti, cuochi e domestici.

Alba Felter si recò invece nel Corno d’Africa dopo l’invasione dell’Etiopia sulle tracce del padre Pietro, un ex ufficiale deluso dall’esercito che era finito nella desolata Assab alla ricerca di avventura (e dove rimase per diciassette anni a reggere il commissariato) e che a partire dal 1893 aveva lavorato come agente segreto ad Harar (nello stesso periodo in cui operavano Rimbaud e il nostro Pietro Sacconi), operando proficuamente a contatto con ras Maconnen. Alba Felter ripercorse le orme del padre Pietro ad Harar, anche per recuperarne le proprietà. E la sua presenza in Abissinia fu davvero straordinaria per l’epoca.

Alba è stata definita una vera e propria “pioniera della modernità femminile”. Come ha scritto Paola Lasagna, “[…] l’esperienza africana del padre dovette rappresentare una testimonianza di straordinaria suggestione per la giovane Alba, che aveva potuto stabilire con lui solamente labili rapporti, prima del suo ritorno in Italia nel 1907, e mai aveva avuto contatti diretti con la terra d’Africa […]. La Felter impiegò un ventennio per portare a compimento il lavoro di sistemazione e di pubblicazione dei materiali lasciati dal padre: la prima guerra mondiale, le incombenze del matrimonio, la nascita dei figli bastano probabilmente a giustificare la faticosa elaborazione o semplicemente la prolungata sospensione delle attività di studio e riordino dei documenti; certo è che il rinnovato incontro con la figura del padre rappresentò un momento cruciale nella sua vita e che, ormai moglie e madre di famiglia, dopo la consegna alle stampe delle memorie africane del padre, decise di partire a sua volta per l’Africa.

Il viaggio della Felter iniziò nel dicembre del 1936 e si protrasse, con qualche interruzione per la visita ai figli rimasti in Italia, fino al 1939. “Trenta mesi d’Affrica”, dirà nella Prefazione del suo volume (“Vagabondaggi”, 1940) che “hanno scolpito in me profonde impressioni, che neppure il tempo varrà a cancellare”. L’opera di Alba Felter è suddivisa in tredici capitoli, corrispondenti alle tappe del viaggio da Massaua, in Eritrea, fino a Mogadiscio, in Etiopia. Nel primo capitolo riportato, l’unico di carattere principalmente “etnografico”, l’osservazione delle cerimonie e delle tradizioni locali rivela una divertita curiosità e un’ingenua capacità di stupirsi di fronte alla realtà africana. Nel capitolo successivo, che riporta le vicende relative all’itinerario nell’Etiopia orientale, dall’arrivo a Dire Daua al ritorno in Harar, emerge l’immagine di una donna dal carattere saldo – in particolare nell’episodio dell’avaria e della caccia grossa – pronta alle sfide e capace di una resistenza non comune. La narrazione è di tipo diaristico e segue il fluire della memoria per libera associazione, svincolata da strettoie cronologie, dove lo spazio per la declamatoria del regime (e, a dire il vero, anche il ricordo della figura paterna) resta molto contenuto.

Il divertimento di Alba viene supportato dall’uso di neologismi davvero coloriti, da accrescitivi e da formulazioni fantasiose che rendono anche stilisticamente un senso di immediatezza nel cogliere quella realtà africana, straordinaria in senso assoluto ma soprattutto per una giovane donne che era consapevole di rappresentare un’eccezione nell’ambito dei costumi del regime, e che, spensierata, godette di questa occasione irripetibile. Quello di Alba Felter resta pertanto un’originale lettura della lontananza africana, e ciò che appare interessante è proprio rilevare come il viaggio per lei si traduca in una forte sollecitazione dell’io, che in quel contesto fortemente gerarchizzato, quale era quello delle colonie africane, si traduce in uno spazio di libertà eccezionale.

(nella foto: Alba Felter)

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore