La morte di Silvio Berlusconi

Oggi è morto Silvio Berlusconi. Ed è come se ci fosse già un prima e un dopo. Oltre all’umana e doverosa pietà, occorrerebbe cominciare a fare delle riflessioni.

Scompare infatti un protagonista assoluto della vita politica (e non solo) di un’Italia senza più padri, lacerata da ideologismi senza più ideologie, da lotte tribali fuori e dentro ai partiti, da compromessi fatti contro ogni più elementare senso della decenza, e dalla mancanza di rispetto verso le istituzioni, i lavoratori, i poveri, la cultura, la competenza e per tutti coloro che sono out rispetto agli apparati.

In questi trent’anni di berlusconismo (che cercherà in ogni modo di sopravvivere anche alla fine terrena del suo fondatore) c’è chi si è arricchito a dismisura (magari evadendo ed eludendo le imposte e le tasse) e chi non riesce più ad arrivare alla fine del mese, e questo in un paese che ha i più bassi salari europei e il più alto livello di debito pubblico.

L’Italia è ancora il paese dove i giovani qualificati fuggono all’estero e dove le migrazioni dall’Africa sono ancora percepite come una minaccia alla stirpe italiana, mentre – al contrario – col calo drammatico della natalità dovremmo cominciare a pensare a delle soluzioni diverse da quelle che la bieca propaganda di alcuni partiti continua imperterrita a propinare, nell’ossessiva ricerca di capri espiatori da dare in pasto all’elettorato.

In un’Italia odierna sempre più divisa da una folle frammentazione della vita sociale e politica, dove i partiti dello zero virgola dettano ancora legge, andrebbero riletti gli anni della Ricostruzione, e riscoperte quelle figure di civil servants che contribuirono alla crescita italiana dopo i disastri della seconda guerra mondiale e gli anni del fascismo, e che seppero trovare delle soluzioni alla crisi dei loro giorni.

Per civil servant, come noto, si intende chi pone la sua competenza professionale e il suo senso civico al servizio della collettività, all’interno di strutture pubbliche o all’esterno di esse ma sempre con spirito di gratuità. Ripensare alla passione civile di questi uomini, che preferirono rimanere dietro le quinte, rifuggendo dall’esposizione mediatica e prestando il loro contributo straordinario alla rinascita italiana, sarà il migliore antidoto davanti alle pandemie del populismo e del nazionalismo che stanno dilagando, in Italia come in tutta Europa.

Ho in mente almeno tre personalità a cui tutti dovremmo ispirarci, indipendente del colore politico e dall’appartenenza di ciascuno di noi: un banchiere eterodosso (Raffaele Mattioli), profondamente laico, che visse la crisi bancaria degli anni Trenta e seppe affrontare l’immane opera di ricostruzione del secondo dopoguerra, che era sì un conservatore ma con quel senso storico che gli consentiva di non essere necessariamente anticomunista (come Berlusconi); un filosofo (Antonio Banfi) che affrontò la crisi del fascismo e della questione comunista e che, vivendo i problemi dei suoi giorni e il conflitto con la classe dirigente del PCI, ebbe una particolare vocazione per la dimensione sociale della cultura e per lo spazio politico; e, infine, un industriale illuminato (Adriano Olivetti), che seppe trovare soluzioni concrete ai drammi della crisi sociale e abitativa di una città, Matera, che, da simbolo della miseria atavica del nostro Sud oggi è divenuta un’icona di rilancio culturale e di sviluppo economico.

Oggi l’Italia non ha più bisogno di uomini della Provvidenza e dei miracoli (sempre e solo annunciati) come Berlusconi, bensì di nuove visioni di emancipazione politica e di un nuovo senso di Comunità. Ma non si può mai discutere del futuro senza porsi il problema della storia. Negli ultimi decenni, la storia sembra esaurita nelle sagre della vanità. Dobbiamo invece ancora occuparci del passato perché, facendolo, ci prendiamo cura di noi stessi. Abbandoniamo l’idea che il passato possa assurgere da modello, ma ricordiamo sempre che il senso ultimo della storia è fare autobiografia del genere umano.

E ripercorrendo la testimonianza dei civil servants che ho citato, sembra di rivedere l’incarnazione della massima Zulu (citata spesso da Marchionne) «Umuntu ngumuntu ngabantu», secondo la quale una persona è tale solo per il tramite delle altre persone.

Una persona è infatti quello che è solo in funzione alle sue molteplici relazioni con gli altri, in un legame universale di scambio che unisce l’intera umanità, dove a prevalere non è solo la coscienza dei propri diritti ma soprattutto dei propri doveri, in una comune spinta ideale di progresso collettivo e di pace.

Sì, non abbiamo più bisogno di miracoli ma di persone che, al di là dei propri tornaconti personali, sappiano operare a servizio di questo paese. Va ripensato a un nuovo progetto di Comunità per unire e non più dividere, senza più soluzioni mirabolanti ma con maggior rispetto per le persone e per il lavoro. Non ce ne voglia Silvio Berlusconi e i suoi adepti, ora che la sua parabola umana si è conclusa. L’augurio comune è che si apra una nuova stagione di reale confronto (e non solo di scontro) per porre concretamente e finalmente mano ai problemi atavici del nostro paese, rimossi da trent’anni di berlusconismo



 

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore