Italiani, brava gente? Riflessioni sulla natura del colonialismo italiano in Africa

C’è un antico proverbio tigrino che recita: “Dal serpente nero si guarisce, mentre il morso del serpente bianco è mortale”.

Nel 2005 il più noto fra gli storici del colonialismo italiano, Angelo Del Boca, tuttora attaccato ingiustamente (e spesso in modo davvero ignobile), ha dimostrato ampiamente nelle sue numerose opere come una costante di esso, da quello Ottocentesco a quello di epoca fascista, è stato, al là delle astratte e generiche dichiarazioni di principio, “[…] l’abuso dei tribunali militari straordinari, il massiccio impiego di metodi coercitivi e punitivi, il mancato rispetto per le stesse leggi vigenti in colonia, il disprezzo per le popolazioni africane, associato alla volontà di tenerle segregate, nell’ignoranza e nella meschinità, e, per finire, l’esercizio di leggi e di pratiche inconfondibilmente razziste”.

Del Boca sviluppò nei tredici capitoli del suo “Italiani, brava gente? Un mito duro a morire” il suo assunto, documentandolo in modo puntuale. Questo suo libro rappresenta un excursus sulla storia dell’Italia unitaria rivolto a ridimensionare quello che nel sottotitolo definì “un mito duro a morire”, perché ancora largamente diffuso e condiviso nella coscienza collettiva della nostra nazione: il mito tranquillizzante di un popolo italiano diverso, perché ritenuto e presentato come più tollerante degli altri. Dietro questa patina di ostentato e ipocrita buonismo, che ha alimentato la tendenza all’autoassoluzione, si sono consumati crimini ed eccidi che non possono e non devono essere dimenticati. Questo atteggiamento autoassolutorio fu infatti il frutto della consapevole rimozione e di una mancata presa di coscienza critica della storia del colonialismo italiano: per troppo tempo non fu promosso un serio, organico ed esauriente dibattito sul fenomeno, gli archivi erano di difficile accessibilità e i principali storiografi erano appartenuti al regime fascista o ad essi in qualche modo erano collegati.

Ferdinando Martini, che resse per nove anni, fra il 1897 e il 1906, la Colonia Eritrea, assumendone per primo la carica di governatore scrisse nel suo “Nell’Affrica italiana” (p. 61):

“[…] Chi dice s’ha da incivilire l’Etiopia – affermava traendo il bilancio di questa sua esperienza – dice una bugia o una sciocchezza. Bisogna sostituire razza a razza: o questo o niente […]. All’opera nostra l’indigeno è un impiccio: bisogna rincorrerlo, aiutarlo a sparire, come altrove le Pelli Rosse, con tutti i mezzi che la civiltà, odiata da lui per istinto, fornisce: il cannone intermittente e l’acquavite diurna. I colonizzatori sentimentali si facciano coraggio: fata trahunt, noi abbiamo cominciato, le generazioni avvenire seguiteranno a spopolare l’Africa de’ suoi abitatori”.

Il fiume carsico, che rimane sottotraccia nella società italiana fin dalla fine dell’Ottocento e continua ad essere alimentato da razzismo, disprezzo e pulsioni coloniali per le culture africane, è sempre pronto ad emergere e a sedimentarsi in varie forme e modalità nella nostra coscienza collettiva. Lo fece il fascismo, che istituì un vero e proprio sistema istituzionale di separazione razziale”, dando così vita alla categoria del “razzismo coloniale”, e questo a partire almeno dal 1937; e di un razzismo quotidiano, diffuso e di massa. Ma il discorso si può estendere anche al secondo dopoguerra, se pensiamo al prorompente riemergere e dilagare dei rigurgiti razzisti negli ultimi decenni soprattutto nei confronti delle persone di colore, quando il rapporto con l’alterità africana è diventato un problema quotidiano, esacerbato da ultimo dalla drammaticità del fenomeno migratorio.

In Italia, fin dalla fine dell’Ottocento e soprattutto durante il fascismo e l’AOI (Africa Orientale Italiana), abbiamo assistito ad una vera e propria “antropologia del degrado e del decadimento”, estremamente superficiale e schematica, frutto di un’interpretazione esasperata delle più rozze teorie evoluzionistiche, nella quale il concetto di razza, estraneo peraltro a qualsiasi interesse di natura antropologica, diventò il punto di riferimento delle categorie della diversità, inevitabile espressione dell’avidità di conquista e di tensione all’appropriazione rapinosa delle risorse altrui.

Ma sarebbe stata soprattutto la conquista dell’Etiopia a rivelare la natura intrinsecamente violenta, genocida e razzista del fascismo, i cui generali, pur di assicurare a Mussolini la vittoria della quale aveva assolutamente bisogno, non esitarono a ricorrere ad ogni mezzo, compresi i gas asfissianti che dopo la prima guerra mondiale erano stati messi al bando da una convenzione internazionale alla quale aveva aderito anche l’Italia. Nel febbraio 1936, durante l’attacco all’Amba Aradan, le indicazioni del Duce trovarono larga applicazione grazie all’abnegazione di Rodolfo Graziani soprattutto nei bombardamenti aerei effettuati con bombe C 500 caricate con più di 200 kg di iprite, l’aggressivo chimico più micidiale fra quelli fino ad allora noti e sperimentati e la cui produzione in Italia salì, in quel periodo, da 3 a 18 tonnellate al giorno. Si trattava di un liquido corrosivo, i cui valori, prodotti da un’esplosione, erano mortali. Senza questi gas l’Italia avrebbe rischiato una nuova disfatta dopo quella storica di Adua (e a rileggere i Diari di Badoglio la preoccupazione in quei giorni di una controffensiva etiope era altissima).

Siamo ancora ben lungi dall’aver “metabolizzato” questi “istinti” razzisti, come ci dimostrano le inquietanti preoccupazioni raccolte e analizzate dall’antropologa Paola Tabet nel 1997 intervistando un vasto campione di studenti delle scuole dell’obbligo e di un corso universitario di Etnologia, di fronte all’avanzare di un mondo dalla pelle multicolore, per lo più percepito come minaccioso e repellente e che ha fatto riaffiorare “una sedimentazione di atteggiamenti e posizioni che si sono progressivamente costruiti nel corso della storia coloniale e precoloniale”. Va quindi smentito, o perlomeno fortemente ridimensionato, uno dei più radicati luoghi comuni dell’Italia post-unitaria, vale a dire, come ha sottolineato Riccardo Bonavita, che “nel nostro paese non abbia mai attecchito il razzismo e che la politica razziale del 1938”.

Continuare a vivere di falsi miti, attaccarsi al pregiudizio e al razzismo e soprattutto fare apologia del fascismo non aiuterà gli Italiani in questo difficile momento. Cesare Correnti diceva a fine Ottocento che “conoscere è meglio di possedere”. Ecco, appunto, torniamo a conoscere e a studiare la nostra storia, e facciamolo per il nostro futuro, se vogliamo veramente rilanciare l’Italia nel campo della cooperazione internazionale e dello sviluppo, specialmente in Africa. Ci farà un gran bene anche fare un po’ di autocritica: l’ha fatta addirittura il Belgio sugli orrori coloniali in Congo…In fondo, come disse Antonio Gramsci, “[…] l’illusione è la gramigna più tenace della coscienza collettiva: la storia insegna, ma non ha scolari”

(Per approfondire, si consiglia la lettura del saggio di Francesco Surdich intitolato “Italiani, brava gente? Considerazioni sulla natura del colonialismo italiano”, in Atti dell’Accademia Ligure di Scienze e Lettere, Serie VII – Volume I – 2019, p. 483 e ss.)

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore