Nelle terre dei profumi e dei veleni (Esploratori italiani nel Sud Est asiatico)

Amici, sto ultimando la stesura di un nuovo volume che ricostruisce l’affascinante percorso degli esploratori italiani che, a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, esplorarono il Sud Est asiatico. Oltre a Odoardo Beccari, si avventurarono con lui in questa remota area del mondo altri esploratori italiani che oggi sono in pochi a ricordare; Giacomo Doria, Luigi Maria d’Albertis, Enrico Alberto d’Albertis, Elio Modigliani, Giovanni Battista Cerruti e Lamberto Loria. Dettero addio alla “civiltà” attratti irresistibilmente dalla foresta, che come scrisse Beccari “[…] ispira più timore dell’oceano e del deserto […]: nella foresta più si avanza e più sembra che il mondo si chiuda dentro di noi”.

L’Italia di quegli anni guardava soprattutto all’Africa: nel 1869, anno dell’apertura del Canale di Suez, Raffaele Rubattino aveva rilevato la baia di Assab e nel 1885 saremmo sbarcati a Massaua. Ma questi esploratori seppero guardare altrove, e senza particolari aiuti esterni affrontarono territori lontanissimi e quasi sconosciuti per amore di scienza e di conoscenza.

Parlare dei nostri esploratori in queste terre lontane non appartiene solo alla storia, ma ci potrà aiutare ad avere maggiore conoscenza e rispetto per il mondo che dobbiamo salvare e per il futuro che dobbiamo costruire. Beccari vide nel Borneo il luogo della foresta-rifugio, un’oasi di salvezza, e come Thoreau anelò a un’esperienza primitiva, sopportando la solitudine e i pericoli con leggerezza, cercando la comunione con la natura.

Oggi, pensando a lui e agli esploratori italiani citati in questo volume, abbiamo il dovere di preservare quello che rimane di questa natura selvaggia di questi luoghi e, con essa, la nostra umanità. In quegli anni, nonostante enormi problemi affliggessero il nostro paese, e malgrado i tragici postumi del Risorgimento incompiuto stessero spingendo l’Italia verso l’avventura coloniale africana (che ci avrebbe presto riservato altre tragedie), una ristretta élite volgeva lo sguardo all’Estremo Oriente, raccogliendo con entusiasmo le straordinarie sfide scientifiche e umane che esso lanciava.

Grandi distese selvagge, incontaminate, celavano tesori scientifici più preziosi dell’oro, e popoli sconosciuti sarebbero diventati la prima palestra della nascente scienza antropologico-etnografica.

Non si trattava di accademici, ma di scienziati che si misurarono sul campo, affrontando tutte le insidie ambientali, le malattie, le difficoltà di comunicazione, conducendo una vita essenziale, spartana, senza comodità, e avanzando ogni giorno verso l’ignoto. Seppero rinunciare ai privilegi del proprio censo e spendere le ricchezze proprie e delle loro famiglie per autofinanziare la loro ricerca.

Di questa intraprendenza e di questa resilienza cultura e scientifica l’Italia dovrebbe fare tesoro, soprattutto oggi. Nelle pagine dei nostri esploratori diretti nel Sud Est asiatico, come in quelle scritte da Gaetano Osculati, che aveva esplorato l’Amazzonia ecuadoregna nel 1847, da Ermanno Stradelli, o nelle pagine africane di Carlo Piaggia, troviamo l’eco dello sfruttamento coloniale intensivo condotto da Olandesi, Britannici, Australiani, Cinesi e altri sui territori del Far East che fino a pochi anni prima erano quasi vergini. E ripropongono pertanto un tema che oggi è diventato di massima attualità importanza: quello del rispetto delle risorse naturali e delle popolazioni indigene, sempre più marginalizzate nelle loro terre ancestrali dalle multinazionali e dalle politiche di “land grabbing” dei governi locali.

Nelle terre dei profumi e dei veleni, questi nostri connazionali vissero esperienze straordinarie dando anche un contributo fondamentale allo sviluppo di discipline scientifiche allora emergenti. Al loro spirito dobbiamo tornare, a quelle “terre incognite” di un pianeta che ora va salvato (non c’è più molto tempo) dalla rapacità di un sistema economico diseguale e ingiusto, che sta distruggendo l’ambiente e con esso l’habitat delle specie botaniche, animali e umane nel nome di un “progresso” che non è più tale. Ed è proprio attraverso il “progressus ad originem” di questa affascinante storia esplorativa che spero (scusate la presunzione) di poter lasciare un piccolo segno, un piccolo seme che potrà rigerminare per le prossime generazioni, che andranno – come noi – alla ricerca delle radici dell’uomo, e che per avanzare nel loro domani si nutriranno con il fascino delle avventure del passato.

(nella foto: Guerrieri di Nias)

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore