Il faggio della Lunigiana

“Ogni fiore vuole diventare frutto, ogni mattina e sera, di eterno sulla terra, non vi è che il mutamento, che il transitorio. Anche l’estate più bella vuole sentire l’autunno e la sfioritura. Foglia, fermati paziente quando il vento ti vuole rapire. Fai la tua parte e non difenderti, lascia che avvenga il silenzio. Lascia che il vento che ti spezza ti sospinga verso casa” (Foglia appassita, Herman Hesse).

Sta arrivando finalmente l’autunno, ed è giunto il momento di riabbracciare i miei amati alberi della Lunigiana. C’è un faggio maestoso che mi aspetta in un luogo remoto del Parco nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano. Lui è lì da almeno tre secoli, sul limitare del torrente Mommio, dove iniziano immensi boschi che conducono fino al crinale appenninico. E dove da oltre quindici anni mi avventuro alla ricerca di porcini, per incontrare gli animali selvatici (tra cui il lupo) o solo per cogliere le visuali, le suggestioni e gli orizzonti che mi vengono quotidianamente negati dalla mia attività lavorativa.

Sono sempre in fuga da me stesso, dalla banalità della vita quotidiana, dagli obblighi e dai doveri, e quando non scrivo o sono in viaggio in giro per il mondo vengo qui, nella mia amata Lunigiana, dove ho messo le radici e dove ho conosciuto amici straordinari e generosi. Andare a funghi per me è come tornare bambino, agli anni dell’infanzia che ho trascorso al Molino delle Campore (Modena), con un nonno meraviglioso che faceva il muratore e il mugnaio, e mi ha insegnato la sacralità della natura e della vita.

Sì, ogni anno il faggio della Lunigiana mi aspetta pazientemente. Riabbracciarlo mi crea una gioia immensa, un brivido di vita mi avvolge e mi spinge a camminare per ore in luoghi remoti e inaccessibili. Le radici di quell’albero sono in fondo alla terra, le sue chiome si perdono nel cielo. La sua vita rinasce ogni primavera dopo che sembrava morire in autunno.

Il senso del sacro per gli umani è nato proprio al cospetto degli alberi, osservando la loro capacità di andare oltre i limiti angusti della primitiva percezione. E ci sono molte buone ragioni, anche terapeutiche, per abbracciare questi alberi meravigliosi. Sono virtualmente immortali, e forse per questo gli uomini, insoddisfatti della propria condizione, non hanno mai smesso di cercarli e di abbracciarli.

Alla fine delle mie lunghe camminate, con le gambe doloranti torno a ringraziare il faggio per aver permesso a tutto quello spazio esteriore di riempire il mio spazio interiore. Disboscate, imbecilli, bruciate, tagliate, ma sarà solo l’albero a salvarci dalla nostra deriva. Ecco, ora il mio faggio mi saluta, ancora sorridendo nel vento restando fresco, sano e voglioso di espandersi ancora sul limitare di questi silenzi ancestrali. Sono ormai sul sentiero del ritorno e già mi manca.

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore