Giovanni Miani

Quella di Miani è sicuramente un’esperienza pervasa (quasi posseduta) da un’ossessione eroica mai più rivista, di un uomo medioevale o del Settecento. Come ha scritto Gabriele Rossi Osmida, Miani pare “[…] scaraventato per il mondo dietro a un miraggio […]. Tutto ciò che egli fa, è in nome non dell’Italia e dei suoi tempi […] ma di un’Italia più antica che ha per bandiera l’individualismo, il coraggio personale, il gusto e il capriccio della vicenda straordinaria”, e che indurranno Miani anche a compiere atti sadici e completamente gratuiti. Nel Primo Diario (Viaggio verso le sorgenti del Nilo, 1859-1860) viene infatti descritta la distruzione di un villaggio ordinata da Miani, che appunta. “[…] Osservando l’incendio ebbi un gusto superiore a Nerone perché mi feci accendere la pipa col fuoco del villaggio”. Miani fu, in breve, un avventuriero allo stato puro, sprovvisto della cultura necessaria per comprendere la complessità delle aree che attraversava, una sorta di eroe solitario che, a differenza di Livingstone, Speke e Baker, ben sostenuti dalla potenza britannica, affrontò da solo e a mani nude l’Africa, e che rimase vittima delle sue stesse ossessioni esplorative e del suo procedere disordinato e rocambolesco.

A 43 anni suonati Miani, dopo una vita disordinata e dissoluta, imbocca finalmente la strada dell’esplorazione e abbandona definitivamente la pubblicazione della Storia universale della musica, che per molti anni era stata la sua ossessione e l’aveva portato a dissipare tutti i suoi averi. Nel 1849 Miani emigrò dall’Italia e si recò in Egitto, dove trova dapprima un impiego presso il collegio copto di Alessandria, dove insegna italiano e francese, e col ricavato studia arabo, astronomia, topografia e storia naturale: ovviamente, lo fa a suo modo, nell’arco di un solo anno. Poi, insieme a due allievi, parte per un viaggio orientativo nell’Alta Nubia, tracciando una carta del corso del Nilo che verrà pubblicata a Parigi nel 1858. La pubblicazione crea un vero e proprio vespaio ma gli procura comunque la nomina di membro della Società Geografica di Parigi, e che gli diede una bella pubblicità. Su tale carta venne data notevole rappresentazione del Sobat, fiume che scaturisce dal ciglio meridionale del massiccio etiopico (Gubé) e che assume il nome di Omo nel corso medio e di Sobat solo nell’inferiore. Nonostante numerose critiche e diffidenze, questa mappa attirò l’attenzione di Napoleone III, che dotò Miani di munizioni ed armi e attraverso il suo Ministro degli Esteri Walewski provvide a fornire i necessari appoggi diplomatici.

Per raccoglier altri fondi Miani pubblicò anche un opuscolo (Posizione geografica dell’Offir della Bibbia e dell’origine del Nilo) che venne letto durante la riunione del 10 aprile 1858 al Congresso della Società Geografica di Parigi e che venne ristampato a Venezia nel 1862. Attraverso questa pubblicazione, Miani cercò di dimostrare che la mitica terra di Ophir coincidesse con le altrettanto mitiche sorgenti del Nilo. La sua mossa fu davvero astuta per attirare l’attenzione sul suo progetto esplorativo: cercare e infine ritrovare tali sorgenti equivaleva infatti a scoprire le miniere d’oro, gli enormi depositi di avorio, le pietre preziose e gli aromi (incenso e mirra) tanto decantate nella Bibbia, e che re Salomone aveva fatto portare a Gerusalemme attraverso la flotta di Hiram.

La mitica terra di Ophir (insieme al Punt) è descritta in svariati punti dell’Antico Testamento come una regione aurifera. Essa viene citata varie volte, ed era sicuramente un porto. Come il luogo della mitica Regina di Saba, Ophir sfuma nella confusa geografia del mito e, come altre terre e luoghi leggendari, forse non verrà mai individuata. Studiosi della Bibbia e archeologi hanno tentato di determinarne l’esatta localizzazione: una delle possibili collocazioni potrebbe essere rappresentata dalla sponda africana del Mar Rosso, visto che nel testo biblico si dice espressamente che il porto di partenza delle navi dirette ad Ophir era quello di Ezion-Geber, nel golfo di Aqaba. Miani concludeva che chi avesse scoperto il mitico Ophir, essendo esso vicino al mare dell’Equatore, avrebbe fornito alle navi dei tesori che avrebbero fatto impallidire il Nuovo Mondo, e il centro dell’Africa sarebbe presto diventato una nuova India.

La “molla” che spingeva ad esplorare le sorgenti del Nilo in fondo non era molto dissimile da ciò che indusse i Portoghesi nel XVI secolo a raggiungere il Mar Rosso sotto l’influenza del mito del Prete Gianni e della famosa lettera (che si rivelerà un falso storico). Ovviamente Miani esagerava, e non di poco, ma il 5 gennaio 1859 Miani riesce a sottoscrivere al Cairo un contratto con Gustavo Revol di Lione, in cui si stabilisce che le spese della spedizione sarebbero state poste a carico di quest’ultimo, e che gli eventuali utili sarebbero stati ripartiti come segue: 50 per cento al Revol, 25 per cento a Miani e il restante 25 per cento ai componenti della spedizione, che il primo maggio del 1859 finalmente partì.

Al contatto con la primitività africana, esplosero in modo incontrollato le contraddizioni che Miani covava fin dalla tenera età. Per lui, che aveva subito sofferenze e mancanza di affetti si apriranno anche le porte della violenza e del sadismo, come abbiamo già visto menzionando l’episodio del villaggio bruciato da lui deliberatamente dopo il massacro dei suoi abitanti. Non fu sicuramente una bella penna (anche Piaggia, del resto, chiese aiuto a De Amicis per mettere i suoi diari in bella grafia). Ma del resto, non si può pretendere che un esploratore sia necessariamente anche uno scienziato o un letterato! Se ci accostiamo comunque alle pagine di Miani troviamo ricche informazioni e descrizioni di regioni e di popoli, e soprattutto di quei Dinka, Shilluk, Niam-Niam, Nuer che ritroveremo nelle pagine di Piaggia, Casati e (un secolo dopo) dei fratelli Castiglioni.

Miani (che venne soprannominato il Leone bianco dagli indigeni africani, per via probabilmente della sua incolta e fluente barba canuta) iniziò così la sua avventura verso sud alla ricerca delle sorgenti del Nilo, in una regione che sarebbe stata battuta anche da Piaggia e da Casati. Il suo primo viaggio si arrestò sfortunatamente a poche giornate di viaggio dallo sbocco del Nilo Bianco dal lago Vittoria. Leggendo la relazione del viaggio di Speke e Grant, a non grande distanza dal lago Alberto Nyanza, si parla di un albero monumentale su cui Miani incise una “M” e una “I”. I mercanti descrissero che l’individuo che effettuò tali incisioni aveva una barba lunga, e la descrizione del personaggio corrispondeva alle caratteristiche dell’esploratore italiano. Creduto un impostore, in effetti Miani fu il primo europeo che prima di Speke si era più avvicinato alle sorgenti del Nilo, senza purtroppo trovarle.

Avido di gloria, benché già piuttosto anziano, nel 1871 Miani partì per una seconda spedizione, che lo portò oltre lo spartiacque nilo-congolese alla corte del re Mbunza, dove morì l’anno successivo. La Società Geografica Italiana (SGI) raccolse le sue carte consunte e il capitano Manfredo Camperio, “uomo caro ai cultori della geografia”, le riordinò. Il 15 maggio 1871 l’esploratore Schweinfurth scrisse a Miani una lettera, mentre quest’ultimo era sulla via del Monbuttu per poi cercare di penetrare nei territori dei Niam-Niam (Azande). In quegli anni molte spedizioni erano state attaccate da questo popolo, che cercava di difendere la propria indipendenza. In realtà, come ci ha descritto Carlo Piaggia, i Niam-Niam, pur avendo pratiche antropofaghe, erano molto ospitali con gli stranieri rispettosi delle loro autonomie. Nella citata lettera, Schweinfurth descrive anche la presenza dei gorilla e dei pigmei Akka.

Miani lasciò in eredità alla SGI anche alcuni reperti naturalistici ed etnografici (tra cui due “cimpanzè” imbalsamati), e un plico suggellato contenente una carta geografica e la descrizione del suo viaggio. Lasciò inoltre “[…] due uomini nani della tribù dei Tichi-tichi” che abitavano i circondari del Monbuttu. Si trattava di due bambini pigmei della tribù degli Akka che, dopo una breve sosta al Cairo, arrivarono in Italia e che destarono grande interesse tra gli studiosi. Questi fanciulli sbarcarono nel porto di Napoli a bordo della nave Rubattino, e saranno consegnati – quale dono del viceré d’Egitto, al re d’Italia che soggiornava in quel periodo nella reggia di Capodimonte. Il presidente della SGI, Cesare Correnti, dedicherà loro una lunga conferenza. Nell’agosto del 1874, i due bimbi giungeranno a Verona nella casa del conte Miniscalchi, che li affiderà alle cure del servo africano Barkitt. Nel 1877 arriverà a Trieste anche Saida, la fanciulla pigmea catturata da Romolo Gessi ai confini del Sobat, mentre a fine anno Matteucci (morto giovanissimo dopo una traversata del Sahara da Massaua al delta del Niger) darà alle stampe un volumetto dal titolo “Gli Akka e le razze africane”. Il 29 gennaio 1883 L’Arena di Verona diede la notizia che uno dei due Akka (Tukuba-Tibò) era morto di tubercolosi all’età di 21 anni. Latro (Chairallà) venne presto dimenticato

(tratto dal volume di Alessandro Pellegatta, “Esploratori lombardi”, Editoriale Delfino, Milano, 2020)

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore