Il monastero di Debra Damo (Tigrai, Etiopia)

In questi giorni si parla del Tigrai solo ed esclusivamente per illustrare il conflitto bellico tra l’esercito federale e le truppe legate al TPLF (Tigray People’s Liberation Front). Oggi invece vorrei parlarvi del grande patrimonio culturale ed archeologico di questa regione, che ha nel monastero di Debra Damo una delle sue preziose testimonianze. Qualcuno disse che la bellezza salverà il mondo. Nel comune auspicio che questa guerra finisca presto e che non crei danni irreparabili e sofferenze alla popolazione civile, ripensare alla bellezza culturale di questa meravigliosa regione ha un significato di risilienza culturale e di buon auspicio.

Parlando di Gondar, l’antica capitale imperiale dell’Etiopia, i diari di padre Francisco Alvarez, cappellano dell’ambasciata del Portogallo nel 1520, narrano cosa videro i Portoghesi prima delle devastazioni prodotte da Gran il Mancino in Etiopia tra il 1527 e il 1543. Innanzi tutto, questi diari ci parlano dell’architettura e degli edifici che egli visitò: parlò in particolare dei monasteri etiopi, che – scrive Alvarez – <<…erano tutti situati sulle rupi più grandi e più alte >>. Quelli che descrive sono i complessi monastici realizzate sulla sommità delle ambas, le montagne piatte che segnano lo straordinario panorama del Tigrai e delimitate da ogni lato da rupi ripidissime e circondate da fertili valli coltivate. Sebbene fosse molto difficile accedervi, molti di questi monasteri furono espugnati dagli Islamici. Soltanto il monastero di Debra Damo resistette e rimase inviolato, tramandando fino ai giorni nostri le sue splendide vestigia, esempio unico di architettura di stile aksumita. L’imperatore Lebna Dengel (1508-1540) tentò di fuggire dal suo rifugio sulle montagne del Tigrai ma non poteva affrontare le armi da fuoco degli Islamici. L’unica cosa che poteva fare era arroccarsi a Debra Damo e mantenere le campagne circostanti. Nel 1535 mandò Bermundez, un portoghese che era rimasto in Etiopia quando nel 1526 la missione di De Lima era tornata in Portogallo, a cercare aiuto presso il re del Portogallo stesso, ma sarebbe morto prima che i quattrocento moschettieri portoghesi guidati da Cristoforo da Gama arrivassero a Massaua nel 1541 per aiutare il re etiope assediato a Debra Damo.

Dopo molte battaglie combattute insieme agli Etiopi, i Portoghesi riuscirono a sconfiggere Gran il Mancino nel 1543, ma il prezzo da pagare fu altissimo: trecento dei quattrocento soldati morirono infatti per la salvezza della monarchia etiope cristiana, e il nuovo imperatore Galawdewos aveva perso molte delle sue province. Senza questo aiuto dei Portoghesi probabilmente l’Etiopia oggi non sarebbe più un paese cristiano, e gran parte del suo inestimabile patrimonio artistico, architettonico e culturale sarebbe andato irrimediabilmente perduto. E Debra Damo durante questo conflitto svolse un ruolo fondamentale, come scrive Peter Harrison nel suo “Fortezze di Dio”, in quanto costituì un rifugio sicuro per l’imperatore Lebna Dengel e la sua famiglia, e fu utilizzato come arsenale.

Nei secoli successivi l’inaccessibilità del monastero permise altri utilizzi: fu infatti impiegato anche come prigione reale. Derek Matthews nel suo “The Restoration of the Monastery of Debra Damo” (1948) ha disegnato la pianta del monastero e approfondito le caratteristiche architettoniche dell’edificio, che mostra un superbo incastro di legni e pietre. Il monastero di Debra Damo si ritiene risalga al periodo aksumita e al regno di Gabra Maskal (VI secolo), e vanta probabilmente una delle chiese più antiche di tutta l’Etiopia (IX secolo). Secondo la tradizione locale il monastero fu fondato da Abuna Aregawi, uno dei Nove Santi leggendari dell’Etiopia, con l’aiuto di un serpente divino.

Ancora oggi il santo è raffigurato a cavallo del serpente. Il monastero di Debra Damo oggi rimane isolato come secoli fa, e immutata è la suggestione che riserva la vista delle ripide rupi. Ci incamminiamo lungo un ripido sentiero che ci porta proprio sotto la parete. Non faccio a tempo a interrogarmi su come sia possibile arrampicarsi e subito un monaco mi butta dall’alto un grosso canapo saponoso, che è stato imbracciato da migliaia di mani. Un tempo i monaci issavano i fedeli con una cesta, ma oggi oltre al canapo c’è solo una specie di sicura fatta da un’ulteriore corda di pelle di capra che viene legata alla vita del climber, nient’altro. Sono solo una ventina di metri da scalare, ma occorrono nervi salvi e braccia robuste per salire; la parete inoltre è molto liscia e ha scarsi appigli. Con la sola forza delle braccia mi arrampico lungo la parete. Finalmente arrivo a destinazione, e per lo sforzo sento male alle braccia. Ho anche il fiatone, ma il monaco con la sua grossa collana al collo mi dà subito la sua mano stringendomela con un bel sorriso (vorrà ovviamente una mancia). Inizia così la visita di un luogo sacro unico al mondo: i monaci stanno cantando e pregando dentro la chiesa, e per non disturbare faccio una ricognizione delle sua mura esterne, dove sono ancora visibili tracce d’intonaco.

Come descrive Peter Harrison nel suo citato “Fortezze di Dio”, la chiesa ha pianta rettangolare che misura 20 x 9 metri: la tecnica impiegata per realizzarla, che risale agli antichi metodi aksumiti, prevede l’utilizzo di grosse tavole poste in senso longitudinale e trasversale, per rendere stabile il muro costruito con pietre rozzamente squadrate e mescolate a malta di terra, in strati fino a 40 centimetri separati da assi di legno con uno spessore massimo di 15 centimetri. Ecco che riconosco immediatamente la caratteristica peculiare dell’architettura aksumita; rafforzare cioè la muratura attraverso un’intelaiatura lignea composta da travi longitudinali sulle quali vengono incastrati travicelli trasversali. Le testate circolari di questi ultimi, sporgenti dalla superficie del muto, vengono chiamate “teste di scimmia” (re’esa hebay). Una parete di legno separa la navata dal santuario di tre stanze, dove sono sepolti Lebna Dengel e suo figlio Galawdewos. Il tetto è piatto e fatto di terra pressata sopra un soffitto ligneo. I gradini scavati nella roccia all’epoca della costruzione del monastero e della chiesa furono rimossi.

Qui vivono ancora un’ottantina di monaci totalmente autosufficienti; sulla cima dell’amba ci sono delle bellissime cisterne per l’acqua piovana, e le mucche pascolano beate (ma come hanno fatto a arrivare fin quassù?). L’isolamento di questi monaci non finisce nemmeno dopo la morte: vengono infatti inumati qui, in un tratto della falesia che scende a picco sul versante opposto rispetto alla chiesa, e le bare vengono impilate l’una sull’altra in stretti pertugi, con un ingresso che in seguito viene murato. Dall’alto di questo luogo sacro la vista è meravigliosa e spazia su tutto il Tigrai, fino al territorio eritreo.

Ripensando a quella vista, il mio pensiero ritorna ai luoghi del Tigrai, così pregni di cultura, bellezza e spiritualità. Hanno resistito per secoli alle guerre e alle violenze. E resisteranno anche a questo nuovo e insensato conflitto in questa regione da sempre travagliata.

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore