Beit Beirut. Le capsule del tempo e la memoria

L’unico edificio di tutto il Libano che ha le credenziali per rappresentare questo paese non è un grattacielo ma una semplice casa costruita nel 1924. Il suo nome è Beit Beirut. Fu realizzato dalla famiglia Barakat sulla Via di Damasco, una strada da sempre molto trafficata della capitale libanese e un’arteria di commerci.

All’inizio del 1975 questo edificio si trovò, suo malgrado, proprio sulla Green Line, dalla parte del lato cristiano, alla fine del quartiere di Ashrafieh e  davanti a Basta, il quartiere sunnita. Faceva angolo e la visuale per i cecchini delle falangi cristiano – maronite era perfetta. La guerra civile libanese fu una logorante guerra di posizione, di trincea, combattuta con armi poco potenti e senza l’utilizzo dell’aviazione. Così le falangi cristiano – maronite un giorno decisero di requisire questo palazzo cacciando tutti i suoi abitanti: distrussero le scale interne e bucherellarono la facciata dall’interno per poter sparare.

Sull’esterno la facciata venne ben presto butterata da ordigni di ogni tipo, diventando una gruviera. Finita la guerra civile, questa facciata rimase così come la guerra l’aveva ridotta, mangiata, erosa da migliaia di proiettili, scavata dagli ordigni e invasa dalle erbe infestanti. E soprattutto abbandonata dall’indifferenza degli abitanti di Beirut che scorgendola giravano la testa altrove. Quella casa ricordava cose tristi e la gente aveva solo voglia di dimenticare, e sembrava inoltre fatalmente destinata (come tanti altri edifici) ad essere presto demolita e sostituita da qualche altro grattacielo anonimo di Solidere, la società della famiglia Hariri che ha cementificato tutta Beirut.

Ma vi fu qualcuno che non si arrese a questo scenario. E lottò affinché Beit Beirut sopravvivesse e raccontasse ancora a tutti i libanesi e al mondo intero le sue incancellabili memorie. Dal 1994 l’architetto e attivista Mona El Hallak cercò di salvare Beit Beirut. Il suo era un sogno folle, quasi insensato: trasformare lo scheletro di quella casa martirizzata in un grande Museo della Memoria di Beirut. Non è stato facile, e ci sono voluti ventitré anni per realizzare questo progetto. Nel 1993, dopo essersi laureata in Libano, Mona risedette un anno a Firenze, dove apprese il significato e l’importanza del patrimonio culturale. Rientrata a Beirut volle tornare a visitare la Piazza dei Martiri, e la cosa la sconvolse.

Quello che era uno dei luoghi identitari della città era diventato un enorme spazio vuoto, un parcheggio anonimo. Gli edifici nuovi di Solidere avrebbero acquisito maggior valore con la vista del mare, così le pale meccaniche non facevano altro che demolire macerie e appiattire quella piazza storica. Anche il monumento di bronzo ai Martiri sembrava un oggetto retrocesso del tempo passato, oltraggiato dagli spari e dalle esplosioni, abbandonato e senza più alcun significato. Allora a Mona venne in mente di censire tutti gli edifici sopravvissuti al conflitto che custodivano la memoria di Beirut. Una memoria non fatta solo di architetture ma anche delle tante storie delle persone che in quegli edifici avevano vissuto, dei giardini che erano fioriti e degli alberi che avevano allietato gli umani.

Dal 1994 al 1997 Mona andò a raccogliere tutti gli oggetti che erano rimasti all’interno di quella casa sventrata e butterata dalla guerra. Raccolse tutto ciò che poteva, e in particolare le fotografie del laboratorio Photo Marco, vere e proprie capsule del tempo che ricordavano i momenti felici della gente di Beirut prima dello scoppio della guerra civile. Nel 1997 fu emesso l’ordine di demolizione di Beit Beirut. Ma non accadde fortunatamente l’irreparabile. Nel 2003, l’ordine di demolizione fu revocato e partirono le procedure di esproprio da parte del Comune di Beirut, che durarono cinque anni. Intervenne una ristrutturazione forse un po’ troppo pesante e invasiva, ma l’edificio poteva dirsi salvo. E soprattutto era ancora possibile ricevere quella cascata di luce dal cielo, entrandovi. Le fotografie e i negativi di Photo Marco sono tornati al loro posto. Per parlare della storia degli esseri umani, delle loro speranze, per ricordare i bei momenti della loro vita, le loro cerimonie, la loro infanzia e i loro sogni. Beit Beirut è una preziosa testimonianza per tutti i libanesi, in quanto ricorda che la guerra distrugge non solo gli edifici ma annienta le persone, disintegra gli affetti, i ricordi, brutalizza i rapporti, e fa parlare solo la voce della violenza.

In questo mondo ribaltato anche i protagonisti dello scontro armato, i carnefici delle milizie, diventarono a loro volta delle vittime, dormendo tutto il giorno per operare di notte. E Beit Beirut, da elegante palazzo degli anni Venti dell’Ottocento, divenne proprio un nido di cecchini. Ora si tratta di intervenire anche sugli altri edifici della città che rischiano la scomparsa per tutelare la loro memoria, gli spazi pubblici e il patrimonio culturale.

Con l’esplosione apocalittica avvenuta nel porto di Beirut il 4 agosto 2020, molti altri edifici storici che erano sopravvissuti alla selvaggia speculazione edilizia sono stati gravemente danneggiati, e molti sciacalli stanno cercando di rilevarli a prezzo vile dai legittimi proprietari. Molti edifici restano sfitti e la situazione generale del Libano resta precaria anche per via delle continue tensioni interne e per la guerra della confinante Siria. Molti arabi del Golfo preferiscono investire altrove spaventati dalla presenza di Hezbollah e dalla ormai cronica precarietà della situazione politica libanese.

Si tratta ora di rioccupare questo gigantesco vuoto culturale che si è venuto a creare, sostituendo alla cinica indifferenza dei pochi una maggiore attenzione per il bene comune dei molti, pensando anche a chi vive nelle periferie degradate e nei campi profughi. E pensando anche preservare la memoria storica di una città, Beirut, e di un paese, il Libano, dove nacque l’alfabeto e da dove i Fenici partivano per colonizzare il mondo.

(tratto da: Alessandro Pellegatta, “Beit Beirut. Uno sguardo sul Libano”, Besa editrice, 2020)

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore