Il campo della fame di Otumlo e i Giorni del Male

In questi giorni si sta combattendo una guerra nel Tigrai. È una guerra fratricida che covava da tempo sotto la cenere dei precedenti conflitti. Sappiamo ancora molto poco della strage di Mai Kadra sul confine sudanese. Il TPLF, che ora minaccia la secessione ed è entrato in rotta di collisione col premier etiopico, e le forze amhara si accusano a vicenda. Quello che è certo è che stiamo purtroppo rivedendo le stesse scene di pulizia etnica del Ruanda e dei paesi balcanici. Gli obiettivi rimangono gli stessi: colpire le etnie nemiche. Il processo di pace nel Corno d’Africa subisce così una preoccupante interruzione. Nel passato l’odio etnico fu inventato proprio dal colonialismo per indebolire l’Africa. 

Dopo la guerra e le cavallette nel Tigrai potrebbero arrivare ora anche la carestia e la fame. Prima del conflitto in questa regione, il Tigrai, confinante con l’Eritrea e famosa nel mondo per la sua cultura e le sue bellezze, almeno 600mila persone vivevano sotto la soglia di povertà insieme a numerosi rifugiati, che ora rischiano di non ricevere più aiuti alimentari. Spero vivamente che non succeda quello che negli anni Ottanta dell’Ottocento fu descritto da Ferdinando Martini sulla piana di Otumlo, davanti a Massaua. La storia ci dovrebbe sempre insegnare qualcosa, ma ogni volta facciamo finta di non saperlo.

Cosa accadde ad Otumlo? Durante i primi mesi del 1890 migliaia di disadattati di lingua beja appartenenti alle tribù semi-pastorali del Sudan Orientale si recarono a Suakin in cerca di cibo. L’area era stata colpita da un’eccezionale siccità e dalla piaga delle locuste nel 1889-90, e la carestia si abbatté su queste popolazioni semi nomadi e non coltivatrici che, per l’approvvigionamento del grano, dipendevano dal commercio dei loro prodotti pastorali che venivano scambiati sulla costa col grano importato dall’India attraverso i porti del Mar Rosso.

Non era certo il grano a mancare bensì proprio questi prodotti della pastorizia destinati allo scambio: la carestia scatenò infatti anche epidemie di epizoozia di peste bovina che decimarono il bestiame da pascolo, già indebolito dalle carenze di foraggio e di mangimi. Di conseguenza, migliaia di persone denutrite migrarono dalle regioni del Gash e da Cassala verso la costa del Mar Rosso, portando a un maggior fabbisogno di grano d’importazione. Visto che era ancora in atto la ribellione mahdista sudanese, i vertici militari inglesi di stanza a Suakin, anche per tentare d’indebolire la citata rivolta, decisero allora di affamare deliberatamente le popolazioni dell’interno e di troncare ogni aiuto alimentare, provocando a sua volta un rapido aumento del prezzo del grano e alla fame, al brigantaggio e ai disordini diffusi che finirono coll’interessare anche Massaua e i suoi territori limitrofi.

Questa immane carestia si abbatté anche sull’Etiopia fino al 1892 ed è rimasta nella memoria collettiva col termine di Kefu Qan (i Giorni del Male). Cinquant’anni di guerre civili travagliavano l’Abissinia, e su di essa piombarono calamità di ogni specie: epizoozia, le cavallette, il colera, la peste e infine la fame. La dogana di Massaua rigurgitava di sacchi di dura proveniente da Bombay. Un sacco di questo cereale costava 14 lire dell’epoca giungendo via mare a Massaua ma poteva costare fino a 43 a Cheren e addirittura 100 ad Adua. Per mesi dal Tigrè iniziò un esodo biblico verso Massaua, che era vista come l’ultima possibilità di salvezza e che era stata occupata da poco dagli italiani.

Ogni giorno cercavano di entrare in città centinaia di persone lacere, piagate e sfinite per il lungo viaggio. Venivano da regioni infette e il rischio di esplosione di epidemie a Massaua era altissimo. Così il Governatore della Colonia Eritrea, il generale Gandolfi, ordinò che questa gente cenciosa e disperata venisse respinta oltre la diga di Taulud. Cacciati a colpi di curbash, queste larve umane, che cercavano disperatamente di sopravvivere e che fuggivano dalla carestia, dalle malattie e dalla fame, si rifugiarono pertanto nella piana di Otumlo, “[…] una sterminata distesa di sabbie […] sparsa, con lunghi intervalli, di radi e gracili cespugli di tamerici”. Non c’era lavoro per loro a Massaua e, stremati andavano a morire in quel “campo della fame”.

La descrizione di Ferdinando Martini della piana di Otumlo che possiamo leggere nel suo famoso volume Nell’Affrica italia (1896) è davvero atroce. Fanciulli frugavano nello sterco dei cammelli a cercare disperatamente un granello di dura, mentre altri strappavano coi denti le interiora imputridite di un cavallo sbranato dalle iene. Martini si allontana “vergognoso” della sua stessa impotenza e consapevole che se si fosse prestato soccorso “[…] si rovescerebbe domani qui tutta l’Abissinia”. Questa distesa di moribondi (gli uomini più resistenti da lì a poco si sarebbero trasformati in accattoni e le donne in prostitute, visto che oltre il 90 per cento dei coloniali italiani erano soldati di sesso maschile) fu battezzato dal muratore Miroglio col nome di Meschinopoli. Un altro muratore, Tertulliano Gandolfi, vide anche di peggio: in pieno giorno a Massaua notò “[…] un sottufficiale trombettiere curvo, come una bestia in calore, sopra un bimbo di circa otto anni, malaticcio, che non aveva altro che pelle e ossa, che lo stuprava”.

Dopo il suo breve viaggio di 58 giorni in Eritrea, Martini lasciò nel citato volume le sue “impressioni” e le sue memorie. Alla fine dello stesso, da anticolonialista qual era cambiò idea: riconobbe “l’empia necessità della colonizzazione”. All’idillio di una Massaua immaginifica e fantastica subentrarono presto, già nelle prime pagine del libro di Martini, una Massaua terribilmente reale e concreta. “I morti [della piana di Otumlo] erano morti, i moribondi morrebbero”. Nel giro di un paio di mesi sarebbe scomparso anche il ricordo di quell’immane tragedia: i musulmani restavano nel loro fatalismo, i cristiani abissini erano da secoli assuefatti a quegli “spettacoli”, e i Baniani erano troppo impegnati dai loro traffici commerciali. Del resto, alle disgrazie altrui ci si rassegna facilmente.

Mentre in quella piana morivano ancora a centinaia, nel circolo degli ufficiali italiani stanza a Massaua si davano feste da ballo, e dai sambuchi illuminati in rada “[…] partivano canti, razzi, saluti festosi all’Italia e al Re”. Si scatenavano le danze in quel circolo, e “i bianchi” ballavano walzer e mazurche in una specie di pagoda di legno “con la foia che succede alle lunghe astinenze”. I notabili e i capi dei villaggi vicini venivano a rendere omaggio con la referenza degli usi abissini, “incurvandosi cioè con le mani penzoloni a toccarsi la punta delle pantofole”. Tra i notabili c’erano i Naib di Moncullo e Archico, e soprattutto “il Rotschild maomettano di Massaua” (Aly Dossal), gran protettore dei Baniani, con la sua tunica di raso verde con rovescio di velluto scarlatto sparato del petto, calzoni di tela bianca all’europea e turbante di teletta d’oro.

Ho troppi amici nel Corno d’Africa e ho paura, tanta paura, per quello che potrebbe succedere in Etiopia, Eritrea, Sudan e Somalia. Non sono credente, ma spero che in questi giorni dal monastero di Debre Damo si levino le preghiere e i canti dei monaci del Tigrai. Pregherò anch’io perché la pace ritorni presto nel Corno d’Africa. E prosegua quel cammino di confronto e di dialogo che sembra ora interrotto.

(nell’immagine: foto di Sebastiao Salgado)

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore