Alfonso Vinci. Vivere come se si fosse eterni. L’etica del buon esploratore

«L’esplorazione più difficile, ma anche la più redditizia, rimane sempre l’esplorazione di sé stesso» (Alfonso Vinci, Appunti dai taccuini della Spedizione Shiriana, 1954)

Vediamo insieme oggi un altro grande esploratore italiano, che come Osculati, Raimondi e Stradelli ha esplorato l’Amazzonia e non ha avuto in Italia la fama che avrebbe sicuramente meritato. Parliamo di Alfonso Vinci, un grande alpinista (firmò alcune tra le più note vie degli anni Trenta del Novecento), nonchè esploratore, cercatore di diamanti, comandante partigiano, scrittore e geologo. Fu ricchissimo e poverissimo, si laureò due volte, e nel 1946 lasciò l’Italia (dopo essere stato comandante partigiano in Valtellina) per scalare le Ande. Si inoltrò in seguito nelle foreste della Guayana, scoprì il più importante giacimento di diamanti del Venezuela e non volle mai una casa. A lui Luisa Mandrino ha dedicato una biografia, frutto di un lavoro di sette anni.

In Venezuela, invece, Vinci è conosciutissimo ancora oggi, sia per la scoperta della miniera di Avequì sia per le imprese alpinistiche e la sfida al Pico Bolivar. In Italia, pur essendo entrato nella cinquina del premio Strega con il volume “Samatari”, non ha mai avuto il successo che meritava nemmeno come scrittore. Forse, la sua è stata liquidata troppo velocemente come “letteratura di viaggio”, un genere (cui anch’io immodestamente ho dedicato molte delle mie energie senza grandi risultati) che a torto è stato sempre ingiustamente snobbato dagli intellettuali di allora e che anche oggi può riscuotere casomai un po’ di successo, ma mai il blasonato prestigio letterario. Oltre ai suoi libri, Vinci ci ha lasciato soprattutto una cinquantina di studi etnografici sulle popolazioni amazzoniche, e dopo essere rimasto prigioniero dei Samatari (Sanuma), una bellicosa etnia che vive vicino ai fiumi Caura e Ervato-Ventuari in Venezuela e presso il fiume Auaris, nello stato brasiliano di Roraima, fu liberato e ne studiò le usanze e la cultura.

Vinci pensava che l’avventura fosse una visione piccolo borghese del mondo e i ‘selvaggi’ un’invenzione da romanzo di bassa lega. Gli esploratori dal casco di sughero che avevano avviato l’esperienza africana lo facevano sorridere, intenti a prendere appunti dalla barca, col motore acceso e magari con l’immancabile scarica diarroica in corso. Nel 1950 scoprì il più grande giacimento diamantifero del Venezuela, un fiume nero dove si camminava sui diamanti. In migliaia lo inseguirono come si insegue la fortuna, ma lui fece di tutto per ritornare povero al più presto. Quello di Vinci fu soprattutto un viaggio esistenziale verso un mondo senza tempo di leggende e di paura, abitato da popolazioni che non avevano mai visto l’uomo di barba e riservavano agli uomini ‘razionali’ le migliori frecce al curaro. Lo accompagnava un suo grande amico, un giocatore di poker che in una notte perse tutto fuorché la sua anima e si faceva chiamare Soul (il suo vero nome era Enrico Middleton). Su canoe scavate col fuoco, con un pugno di sale e una bottiglia di rum attraversarono la Guayana spinti da un’unica convinzione: vivere come se si fosse eterni. Catturati dalla citata tribù dei Samatari, scoprirono la vera essenza dell’uomo e smisero per sempre di essere due ‘razionali’. Tornarono nel mondo degli uomini vestiti con un mazzo di frecce e tante storie da raccontare in più.

Il curriculum alpinistico-esplorativo di Vinci è davvero impressionante. Quando avviò (1953) la citata Spedizione Shiriana, Vinci era già diventato consulente per grandi aziende idroelettriche, lavoro che gli consentiva di visitare molte altre zone dell’area orinoco-amazzonica. Professore di Geologia all’università di Caracas, Alfonso Vinci non abbandonerà mai l’interesse per le zone selvagge amazzoniche e per le popolazioni indigene che le abitano, e soprattutto per lo studio dei costumi e dei linguaggi delle diverse tribù indios.

Tra i popoli in cui si imbatterà citiamo i Makiritari, grandi navigatori dei fiumi, artigiani eccelsi e costruttori di case, veri e propri capolavori di architettura forestale e di complessità sociologica. Seguono gli Scirisciana, dalla casa inesistente e accecati dal coroto, nome dato a qualsiasi cianfrusaglia in possesso dei “barbuti”. Veri e propri accattoni della foresta, con la loro pressante esosità costringeranno gli esploratori a fuggire in canoa con una pentola di spaghetti in cottura. Ma Vinci non era ancora soddisfatto, e volle spingersi ancora più in là.

Raggiungerà così la tribù dei Samatari, gli “uomini scimmia”, chiamati così dagli altri indios per le urla animalesche con cui strutturano il loro linguaggio, oltre che per la loro leggendaria crudeltà. Assieme all’amico di sempre Enrico Middleton, Vinci viene sequestrato dai Samatari che lo scrutano in gruppo, lo derubano degli abiti, gli si strofinano contro cercando contatto con una creatura dalle fattezze sconosciute. Col tempo i due occidentali sono integrati nella tribù, visti come gente un poco strana ma comunque ben accetta. Prima di poter far ritorno, non senza qualche sotterfugio, dovranno passare molti “pulipuli”, molte lune (il contatto con questa selvaggia tribù è raccontato nel libro “Samatari”, ristampato nel 2017) . Ed è nel tentativo di raggiungere le zone civilizzate che Alfonso Vinci ha la fortuna di imbattersi in un indios-canaima, un reietto, scacciato e cacciato da tutti, costretto a vivere solo e impaurito nei nascondigli offerti dalla foresta.

Vinci muore nel 1992. Rimase fino all’ultimo un uomo schivo e libero da complessi. Un’altra delle sue massime mitiche recita: “[…] Ci si trova comunque uomini, sotto tutte le latitudini e in tutti i terreni. Non dobbiamo rispondere a domande con affermazioni o negazioni, ma solo con altre domande che portano avanti la nostra esistenza oltre i fiumi, le montagne, le palme nel vento e i giorni di solitudine”.

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore