Requiem per la Siria

Tra Occidente e Oriente. Tra Cristianesimo e Islam. Tra passato e modernità. La Siria rappresenta la Terra dove sorsero le prime tracce di urbanizzazione. Qui, sul litorale del Mediterraneo, nei pressi dell’attuale Lattakia, durante il regno di Ugarit vennero ideati i primi 30 caratteri cuneiformi alfabetici decifrati da Claude Sheffer. La tavoletta contenente il primo completo alfabeto conosciuto al Mondo e risalente alla Tarda Età del Bronzo (1400 – 1300 a.C.) è esposta al Museo nazionale di Damasco. Si tratta di una scoperta, di un evento storico fondamentale nella Storia dell’Umanità e una delle invenzioni (l’alfabeto) più incredibili della mente umana.

Ci sono talmente tante cose da vedere in Siria, che una nostra guida (si chiamava Mohammed) era sempre agitata. Non si sentiva mai all’altezza, e durante i percorsi ripassava gli itinerari, la storia e l’architettura dei luoghi. Un giorno gli venne addirittura la febbre per l’agitazione! Faceva tenerezza Mohammed. Era un funzionario del Ministero dell’agricoltura, e stava dedicando l’anima a progetti di rimboschimento praticamente irrealizzabili, vista la scarsità d’acqua e di pioggia. Aveva due figli adottivi (i genitori naturali erano morti) e arrotondava il magro stipendio statale facendo in modo estemporaneo la guida turistica. Anche l’autista in realtà era un traduttore. Era davvero divertente vederli all’opera insieme. C’erano tratti nel deserto dove, senza alcuna indicazione stradale, non sapevano dove andare. A un certo punto, fortunatamente qualcuno compariva dal nulla (un beduino, un camionista…) e dopo un po’ di giravolte si tornava sulla retta via. Erano sempre allegri e auto-ironici, e si aiutavano a vicenda come due fratelli.

I Siriani sono davvero persone simpatiche, disponibili. Ho passato delle ore a chiacchierare con la gente, nei mercati e nei suq. Ad Aleppo mi sedevo addirittura fuori dai negozi, mentre – come al solito – i miei compagni di viaggio compravano di tutto. Io preferivo starmene tranquillo, sgranocchiando un po’ di frutta secca, a parlare con i miei amici siriani. E a un certo punto un commerciante di tessuti mi chiese garbatamente in inglese: “…ma sei proprio sicuro di non essere siriano anche tu?”.

Arrivai a Damasco di notte. Non dimenticherò mai la vista notturna della Grande Moschea, il massimo esempio dell’arte e dell’architettura omayyade, considerata dagli arabi una delle meraviglie del mondo. Sorta sopra un preesistente tempio di Zeus (di cui conserva il temenos, cioè l’originario muro di recinzione), venne trasformata da santuario pagano in basilica con la conversione di Costantino alla religione cristiana. Quando gli Arabi giunsero a Damasco nel 636 d.C., la parte orientale della basilica cristiana fu trasformata in moschea, ma i Cristiani continuarono a celebrare il loro credo nella parte occidentale, fino a quando il califfo Khaled ibn al-Wahid allontanò i Cristiani e rase al suolo le vecchie costruzioni romane e bizantine, realizzando un complesso e una serie di mosaici senza pari e che, sotto il profilo della “sacralità” islamica, sono secondi solo alla Santa Mecca e alla Medina.

Nella Grande Moschea di Damasco rimasero comunque le reliquie di San Giovanni Battista, che viene tuttora venerato come un Profeta dell’Islam insieme a Gesù, mentre sul lato orientale c’è la tomba di Hussein, figlio di Alì e nipote di Maometto, ucciso dagli omayyadi a Kerbala, in Iraq, dove sorge la famosa moschea dalla cupola dorata, una delle mete più importanti del pellegrinaggio degli sciiti e, purtroppo, oggetto di attentati sanguinari. Sempre nel lato orientale si eleva inoltre il Minareto di Gesù, chiamato così dalla tradizione locale perché qui Gesù stesso apparirà nel Giorno del Giudizio Universale.

Ad Apamea ho camminato tra i campi di grano che affiancano il cardo, nel ronzio delle api che succhiavano il nettare dai fiori spinosi di cardoncello color malva che spuntavano tra le rovine. All’improvviso il silenzio venne interrotto dai canti e dalle musiche di un festival in costume. Lo spettacolo fu davvero straordinario: davanti a questa gente semplice che veniva dalla campagna circostante si tenne una festa coloratissima che rianimò le rovine archeologiche di questa città, che nel suo periodo di massimo splendore ebbe ben 500mila abitanti, e venne visitata da Marco Antonio accompagnato da Cleopatra.

A Palmira nelle prime ore della sera, scomparsi i turisti e gli accaniti venditori di souvenir, vicino al Tempio di Allat, nella luce radente che illumina le colonne, ritrovai il genius loci, e sembrò di vivere in un quadro metafisico di De Chirico. Dall’alto del castello di Qualat Ibn Maan, arroccato su una collina, godetti nelle prime luci dell’alba di un magnifico punto di osservazione per contemplare Palmira e la stupenda oasi che la circonda. La città antica si mostrava in tutta la sua struggente bellezza, con la sua cinta muraria, il santuario di Bel, la via colonnata, l’Agorà e il teatro, e l’inquietante Valle delle Tombe funerarie.

Decisi di andare a trovare padre Paolo Dall’Oglio nel bel mezzo del deserto siriano. Padre Paolo mi accolse in un pomeriggio afoso. Salì il ripido sentiero che portava al Monastero di Mar Musa, tra piccoli terrazzamenti coltivati (tenacemente), dove crescevano rigogliosi alberi da frutta e le piante officinali. Sembrano tanti angoli di Paradiso, con il violetto della lavanda che spiccava tra le asperità rocciose. Il luogo è molto suggestivo, e si saliva tra le rocce. Abbandonato per quasi due secoli ai vandali e all’incuria, e destinato ad un’inesorabile e lenta distruzione, il monastero fu riportato a nuova vita proprio da Padre Paolo, vulcanico gesuita romano classe 1954 e laureatosi all’Università Gregoriana con una tesi su La speranza nell’Islam. Il Monastero custodiva preziosissimi affreschi dell’XI e XII secolo d.C. Nel tramonto ci si riuniva per la preghiera e l’eucarestia, celebrata secondo il rito siriaco, a piedi scalzi come nelle moschee islamiche. Parola per parola, pietra su pietra, un passo alla volta. E questo nella difficile situazione di tanti cristiani in Medio Oriente, giunta in vari casi fino al martirio. Padre Paolo non si spaventava mai e non si scoraggiava, sforzandosi sempre di ragionare e di dialogare.

Di Padre Paolo non si sa più nulla, e la Siria negli ultimi dieci anni è piombata in una guerra senza fine. Ripenso a questo meraviglioso paese e alla sua gente, all’esodo biblico dei Siriani in fuga dalle atrocità della guerra. Ma il mondo continua a volgere lo sguardo altrove. Oggi mi sento molto triste, afflitto, angosciato. La furia devastatrice si è accanita su questa terra, e a quella che doveva essere una Primavera araba è subentrato un inverno durissimo che sembra non finire mai. Ottanta fazioni armate si stanno fronteggiando, e hanno ridotto la Siria in macerie. Una “soluzione politica” appare ancora lontana. E Bashar al-Assad è rimasto al potere. Un altro genocidio, dopo quello armeno, è ormai alle porte: quello dei Curdi. Tredici milioni di persone vivono di assistenza. La comunità internazionale non ha saputo porre fine a questa immane tragedia, spaventosa come quella che ha colpito lo Yemen, e dove attori internazionali hanno globalizzato i conflitti locali.

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore