Abramo (racconto)

Ad Abramo la vita aveva sempre riservato tiri mancini. Il nome stesso non corrispondeva alla sua reale natura. Abramo infatti aveva ben poco di umano; conduceva una vita di cavernicolo e nessuno sapeva dove passasse il suo tempo. Il suo volto era minuscolo e appuntito come quello di un topo, e si cibava di frutti selvatici e di ciò che talvolta qualche mano pietosa gli allungava. Era piccolo, magro, con le orecchie a sventola, e nessuno ricordava se fosse calvo o avesse i capelli; portava sempre, estate e inverno, un cappellaccio sporco sulla testa. Gli mancavano anche molti denti, e per non prendere freddo d’inverno si metteva una mano davanti alla bocca quando tirava la tramontana. Camminava a testa bassa, bofonchiando sempre qualcosa d’incomprensibile, e non parlava mai con nessuno.

Non si separava mai dal suo bastone nodoso di castagno, che faceva spesso roteare sulla testa, specie quando d’estate le mosche e i tafani, attirati dal suo odore penetrante, gli davano il tormento. Nessuno sapeva delle sue origini, da dove venisse o dove fosse diretto, né quanti anni avesse. Magro, scontroso, inviperito col mondo, sognava una palingenesi totale. Con sadica voluttà immaginava visioni apocalittiche, incendi, terremoti, alluvioni, e le sue fantasie di diseredato si alimentavano continuamente durante quelle dolorose peregrinazioni su e giù per i monti. La sua mente era tutta assorta in quel tentativo disperato di rivincita.

Abramo vedeva solo nemici intorno a sé, e si rintanava per ore come un rospo in una stamberga dirupa nei boschi. Per caso aveva scoperto un vecchio trabiccolo di legno per pelare le castagne, e passava interi pomeriggi a girare la manovella di quell’aggeggio antidiluviano. Dal cilindro arrugginito e bucherellate le castagne fuoriuscivano pelate e pronte per essere essiccate. In quella stamberga abitata dai ghiri e dai gufi, Abramo teneva una cassapanca per conservare tutto quello che era commestibile e conservabile, riservando alle tasche qualche castagna secca da succhiare, sempre molto lentamente, meditando su come prendere la sua rivincita sul mondo. Quanti anatemi! Quante bestemmie si levavano dalla sua bocca, risuonando in quegli infiniti spazi boschivi! Quante maledizioni e invettive si abbattevano sulle bestie, sugli alberi e sugli umani! Fulmini e saette estive non bastavano mai per i desideri apocalittici di Abramo, che era sempre altrove.

Mordendo i morsi della fame, non avrebbe mai rinunciato per nulla al mondo alla sua libertà di vagabondo decrepito, alla sua follia. Cercarono di rinchiuderlo in un ricovero per malati mentali, ma fuggì. Sputava con sadica voluttà per terra tutte le volte che casualmente i sentieri boschivi lo riportavano nel suo borgo natio o in qualche pieve. Dormiva come le bestie selvatiche negli anfratti, coprendosi con le foglie. Il suo lezzo lo anticipava, e i bambini alla sua vista fuggivano terrorizzati. Anche nel bosco Abramo era temuto. Solo un animale osava affrontarlo da pari a pari; era una scrofa mezzo maiale e mezzo cinghiale che contendeva ad Abramo le nocciole e le ghiande.

Giunse un inverno rigido e senza neve. La terra era dura come il marmo, e gli scarponi chiodati di Abramo risuonavano sinistramente. Da giorni non mangiava, così suo malgrado fu costretto a bussare alla porta di una casa isolata, persa nel nulla di una radura accerchiata da infinite lande boschive. Comparve sull’uscio una donna anziana tutta spettinata, una vecchia pazza che passava da anni i suoi giorni rintanata in quella stamberga, vagheggiando impossibili amori. Fin da giovane si era messa in testa che un bersagliere prima o poi avrebbe bussato a quella porta e l’avrebbe sottratta ai suoi giorni lenti, offuscati e diffidenti. Tozza e corta di mente, la donna assomigliava a una vecchia topa, ma nel suo cuore impazzito ardeva sempre quel folle amore giovanile per quel bersagliere immaginario. Fu il cappello di Abramo, colorito con qualche sparuta penna di ghiandaia e di fagiano raccolta nei boschi, a realizzare il miracolo.

Così il cavernicolo divenne l’amato. Abramo, per fame, si prestò a recitare la parte che l’ingrato destino gli aveva riservato, ma restavano quei sogni ossessivi di rivincita e di apocalisse. La donna lo teneva affettuosamente per mano nelle lunghe sere invernali davanti al camino, ma Abramo sognava solo la fuga nei primi tepori di primavera. Nel gelido buio di quella stanza annerita i volti dell’uomo e della donna venivano rischiarati dalle braci fumose di legna leggera.

Entrambi non erano mai stati bambini, e passavano intere giornate di demenza puerile. Lei lo baciava, lo abbracciava, e lui si adattò a quella matta pensando alla fetta di polenta fumante che ogni giorno gli spettava. Quella casa, del resto, non era affatto dissimile alla sua spelonca nel bosco. Lei parlava tutto il giorno, e lui stava zitto; lei pregava devota e lui bestemmiava. Una strana demenza li tenne uniti durante quel gelido inverno. Finché in una rigida mattina di marzo Abramo fu riposto in una sbilenca cassa da morto. Fu solo allora che un sorriso beffardo, indecifrabile, apparve sulla sua piccola faccia da topo. Da lì a pochi giorni l’alluvione avrebbe piegato la valle. Seguirono una prolungata siccità e vasti incendi boschivi. Le visioni di Abramo si erano finalmente avverate.

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore