Tuareg

Nel gennaio-marzo 1977 Alfredo e Angelo Castiglioni condussero una nuova spedizione dal fiume Niger al lago Chad, entrando in contatto con territori sahariani tra i più difficili e insidiosi, molti dei quali mai percorsi da mezzi meccanici ma solo dalle carovane tuareg, che di norma avanzano seguendo i caratteristici alamat, cumuli di pietre che sono fondamentali per orientare il percorso in quelle vastità piatte, infinite, senza nulla che alteri l’uniformità di quel paesaggio brullo e desolato. Affrontare questa dimensione vuota e ossessionante richiede grande forza d’animo e preparazione. Il deserto non fa prigionieri. Perdere il percorso e non raggiungere uno dei rari pozzi per l’abbeverata significa morte certa. Alfredo e Angelo cercano ciò che resta di un lontano passato, quando questa arida vastità era ricca d’acqua, di vegetazione e di vita. Li accompagna una guida tuareg conosciuta a Tombouctou.

Improvvisamente, in un avvallamento del terreno spunta un teschio. Subito si presentano nella loro spettrale evidenza i resti di una carovana smarritasi nel deserto e morta di sete. Un’improvvisa tempesta di sabbia ha fatto probabilmente perdere la direzione a uomini ed animali, che ora giacciono insepolti, le ossa mescolate. Dalla sabbia spuntano focacce di datteri secchi, portaoggetti tuareg di pelle, ghirbe disseccate che erano appese ai fianchi dei dromedari, le cui carcasse semi mummificate emergono parzialmente dalla sabbia. Uomini e animali hanno cercato di rifugiarsi in un questo avvallamento per sfuggire al sole cocente. La sofferenza è stata comunque grande, ed è durata per giorni.

Negli anni Sessanta e Settanta i fratelli Castiglioni hanno conosciuto anche i fieri nomadi dei deserti di Algeria, Niger e Mali: i Tuareg. Chiari di pelle, di razza berbera, gli uomini tuareg portano il velo (cheche o litham) di colore blu indaco, un colore che fissandosi col sudore sulla pelle ha originato la leggenda di “uomini blu”. Il velo non ha solo uno scopo protettivo contro la sabbia, ma serve a proteggersi dai jinn, non sempre benigni, che popolano il deserto. Finalità pratiche e magiche regolano da millenni questo popolo indomito, che vive proprio grazie al dromedario. “Se muore il dromedario anche tu muori”, recita un loro antico adagio. Senza questo animale, i Tuareg non potrebbero raggiungere i pozzi d’acqua lontani nel deserto e i grandi mercati del Sahel. Questi nomadi discendono dai feroci guerrieri che un tempo controllavano le secolari vie carovaniere che attraversavano il Sahara. Ma sono sempre le donne ad essere depositarie della tradizione.

Diversi gruppi nomadi nel sud della Libia e in Algeria (principalmente Tuareg e Tebu) alimentano ancora oggi un movimento transfrontaliero attraverso le antiche vie carovaniere di transito, rendendo sempre vive le connessioni etniche. Questi gruppi hanno strutture di clan, che si estendono su gran parte del Maghreb e travalicano i confini internazionali. Spesso questi gruppi bypassano i punti di confine ufficiali per trasportare merci ad altre comunità, ripercorrendo le antiche vie carovaniere e sfuggendo ai controlli governativi. Sahara. La sola parola sembra evocare tutti i nostri sogni di avventura. Il Sahara algerino è immenso, inquietante. Stordisce con la sua sconvolgente bellezza e la forza delle emozioni che trasmette. Il ritmo è lento, quasi immobile in queste lande, e il deserto cambia continuamente: dalle pietre si passa alle dune sabbiose man mano che ci si addentra in questo grande nulla. A sud-est, al confine con la Libia, c’è il Tassili, ricchissimo di pitture rupestri e di vegetazione, tra cui rare specie di mirto sahariano e cipresso. Nella parte centrale c’è l’oasi di Djanet a Tamanrasset, con le dune rosa dell’Erg d’Admer e quelle dell’Erg Tihoidaine. Le temperature sono altissime d’estate, ma con sempre maggiore frequenza capita che nevichi.

La tradizione fa nascere i kel tuareg, cioè le grandi tribù, da un unico ombelico, l’antica regina Tin Hinan, la mitica Antinea, erede di un Atlantide scomparsa. I Tuareg parlano un dialetto libico berbero consonantico come le lingue semite da cui deriva. Sono monogami, fatto abbastanza insolito tra i musulmani, ma il credo islamico di fatto si è sovrapposto alle preesistenti credenze animistiche nate a contatto con questo duro e netto mondo, nero e aspro, fatto di rocce, di rade piante spinose, di stelle e di potenze occulte, di tempeste di sabbia e di aridità. Le donne tuareg, in antitesi rispetto alle donne arabe, godono di grande libertà sessuale prima del matrimonio, che trova il suo momento iniziatico nell’agal, o corte amorosa, una festa antica durante la quale i giovani s’incontrano per cantare i tindé, le canzoni d’amore, e scegliersi. Il parto è un momento sacro per i Tuareg. L’acqua del parto penetra nella sabbia ed è aman iman (l’acqua è vita), stabilendo un legame indissolubile con le anime dei trapassati. Durante speciali cerimonie (borbor) i tuareg parlano direttamente coi loro morti, e quando brillano le Pleiadi sacre portatrici d’acqua e di pioggia, le donne iniziate si stendono sui tumuli sepolcrali per ascoltare le vibrazioni che i sepolti da millenni rilasciano.

I Tuareg non hanno uno Stato proprio ma si spostano in gran parte del Sahel e del Sahara stabilendosi, di volta in volta, in diverse oasi per dedicarsi al pascolo, all’agricoltura e all’artigianato. Ciò è stato causa, lo è ancora oggi, di notevoli problematiche geopolitiche, di tensioni e guerre. Per le genti tuareg, le migrazioni e gli spostamenti sono indispensabili per la loro sopravvivenza, oltre che parte integrante della loro cultura. Durante e dopo il periodo della colonizzazione francese, la restrizione alla libertà di movimento ha concorso allo sviluppo di difficoltà economiche e tensioni. Tutto il mondo poetico dei Tuareg, ben rappresentato dalle fotografie e dai filmati dei fratelli Castiglioni, è ormai inevitabilmente destinato a un fatale declino.

Oggi in Algeria ci sono circa un milione di Tuareg, e il “popolo blu”  deve combattere contro la povertà. Le sempre più ricorrenti siccità hanno impoverito sempre di più i loro pascoli, e molti Tuareg hanno dovuto sedentarizzarsi. La maggior parte degli “uomini blu” oggi vive in condizioni di indigenza e dipende dagli aiuti internazionali, e sempre più spesso scoppiano delle sommosse. Nella zona del Niger i Tuareg abitano in aree ricchissime di uranio, i cui proventi non vengono mai reinvestiti in loco. Per molti anni in Niger e Mali i Tuareg hanno subito ondate di repressione e brutalità a causa della loro irriducibile diversità e per il fatto di navigare incessantemente nel deserto a cavallo dei confini internazionali.

La bomba tuareg è sempre sul punto di esplodere. Purtroppo, oggi sempre più spesso anche gli “uomini blu” devono rinunciare alla loro anima per trasformarsi in disadattati ai margini delle periferie urbane delle metropoli nordafricane. E sempre più rari sono gli autentici nomadi del Sahara che, come la sabbia di questi immensi deserti, non accettano limiti, confini e padroni. Scomparse ormai le razzie alle carovane di passaggio e ridotti al minimo gli scambi commerciali trans-sahariani, oggi i Tuareg si dedicano sempre più alla pastorizia e all’agricoltura, oppure si mettono alla guida di camion sgangherati che hanno sostituito i dromedari. Li guida il loro innato senso di orientamento in questi deserti senza punti di riferimento. Alcuni sono diventati stabili, ma altri continuano a combattere per difendere la loro autonomia, adoperandosi in sanguinosi atti di guerriglia che rendono oggi insicuri alcuni tragitti.

Il Sahel, purtroppo, oggi è diventato un territorio sempre più povero e border line. Gli eventi ambientali e il cambiamento climatico sono spesso ritratti dai media come i driver di migrazione e conflitto. Sotto questo punto di vista, il Sahel è considerato il ground zero per la sua critica esposizione geografica. Non è sicuramente agevole esplorare il multiforme nesso intercorrente tra cambiamento climatico e mobilità. Piuttosto che come causa principale, il cambiamento climatico si presenta spesso come un moltiplicatore di minacce già presenti e come un supplementare fattore di stress che mescola realtà già difficili: governance debole, ingiustizia sociale, conflitti etnici, infrastrutture limitate e instabilità politica sono solo alcune delle cause che amplificano gli effetti del cambiamento climatico e aumentano la propensione delle persone a migrare, sia all’interno dell’Africa sia verso l’Occidente, oppure a ribellarsi allo status quo.

(nell’immagine: Tuareg – foto di Alfredo e Angelo Castiglioni)

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore