Pasolini e lo Yemen

Come si legge nei racconti de “Le Mille e Una Notte”, “… la verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni”, e nonostante la modernizzazione forzata, lo Yemen era fino a pochi anni fa ancora il Paese dei Sogni. Attraversarlo da nord a sud permetteva al viaggiatore occidentale di penetrare nella storia millenaria dell’Umanità, dai mitici territori della Regina di Saba fino ai giorni nostri, attraverso un Medioevo incantato, sospeso.

Da secoli lo Yemen ha attirato l’attenzione della cultura occidentale. Uno dei suoi primi visitatori fu Renzo Manzoni, nipote di Alessandro e figlio di Pietro, ultimo erede di casa Manzoni, che tra il settembre del 1877 e il marzo del 1880 effettuerà due lunghi viaggi nello Yemen come corrispondente dell’Esploratore di Milano e del Bollettino della Società Geografica Italiana. E, prima di lui, nel 1500 Ludovico De Varthema ripercorse l’Arabia Felice e descrisse la sua capitale che, già nel 1502, era assediata dal sultano di Aden.

Innamoratosi perdutamente di Sanàa, Renzo Manzoni scrisse un prezioso resoconto dei suoi viaggi, il cui quadro vivissimo e dettagliato è ancora fondamentale per la lettura del paese. Renzo Manzoni fu tra l’altro il primo a disegnare la pianta della città vecchia di Sanàa. “La città mi sembra bellissima: magnifiche, grandiose sono le case. Queste case sono tutte costruite in pietre dal colore rosso bruno: hanno la forma e le grandi dimensioni di quelli che si vedono nelle rovine romane… Le altissime case, a fondo grigio di pietra e rosso bruno dei mattoni a vista, con le finestre, i frontoni, le sagome a ricami in bianco, fanno un effetto magnifico, sorprendente al chiaro di luna”.

Lo Yemen attirerà in particolare l’attenzione anche di due grandi scrittori italiani contemporanei, che lo visiteranno più volte; Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia. Pasolini nell’agosto del 1972 stava lavorando all’ultima parte della “Trilogia della vita”, “Il Fiore delle Mille e Una Notte”, con una sceneggiatura scritta in collaborazione con Dacia Maraini. Durante l’estate fece sopralluoghi nello Yemen, ottenendo uno speciale permesso governativo per entrare nella valle dell’Hadhramawt, e poi in Egitto, India, Persia, Eritrea. Alla fine del gennaio del 1973 Pasolini era ancora in viaggio per altri sopralluoghi. Il film viene cominciato a Isfahan, nel cuore della Persia, città che gli ispirerà la stesura del famoso articolo apparso sul “Corriere della Sera” intitolato “Contro i capelli lunghi”. Articolo con cui Pasolini inaugurò la felice e scandalosa stagione giornalistica raccolta nel libro “Scritti corsari”.

La troupe di Pasolini si sposta, oltre che nello Yemen, in Eritrea, in Afghanistan, nel Corno d’Africa e in Nepal. Pasolini vive il suo film ora per ora, inquadratura per inquadratura, alzandosi alle cinque del mattino. Lavora con grande rapidità e precisione girando con un’ARIFLEX 35 senza suono e filmando ogni cosa, case, mura, deserti e tutti “…gli oggetti retrocessi nel tempo, arcaici, retrospettivi”. Alla fine delle riprese nello Yemen, una domenica mattina gira con la pellicola che gli rimane il famoso documentario “Le mura di Sanàa”, che salverà la città dalla distruzione. Il documentario è importante non solo dal punto di vista testimoniale e civile ma che, soprattutto, ci aiuta a capire le profonde ragioni della poetica di Pasolini e le stesse motivazioni che lo spingeranno ad abiurare la “Trilogia della vita”.

“Alì dagli occhi azzurri / uno dei tanti figli dei figli / scenderà da Algeri, su navi / a vela e a remi. Saranno / con lui migliaia /di uomini / coi corpicini e gli occhi / di poveri cani dei padri /sulle barche varate nei Regni della Fame /… Essi… distruggeranno Roma / e sulle sue rovine / deporranno il germe / della Storia Antica “. Questi versi di Pasolini risalgono agli anni 1962-64 e già enucleano la crescente insofferenza del poeta per una Roma sempre più abbruttita e insopportabile, sempre più oltraggiata dalla speculazione edilizia dilagante. Ciò che Pasolini rimpiange è l’illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale. Per tale motivo egli preferisce dimorare il più a lungo possibile nei paesi del Terzo Mondo.

Nel citato documentario “Appunti per un film sull’India” Pasolini affronta, oltre ai problemi dei rapporti tra le caste e del controllo demografico, la condizione delle campagne e dei villaggi, ancora pervasi da una pace “preistorica” e da una “dolcezza elegiaca”. La sceneggiatura del film prevede la morte di un maraja, che nobilmente sacrifica il proprio corpo per sfamare le tigri, e la cui famiglia cade in disgrazia disperdendosi tra le genti dell’India. “Un occidentale che va in India ha tutto ma in realtà non dà niente. L’India invece che non ha nulla dà tutto. Ma che cosa?”, si chiede Pasolini chiudendo il documentario sulle scene di una cremazione a Benares.

Alla fine degli Anni Settanta davanti agli occhi di Pasolini giganteggia l’ossessiva irrealtà della sottocultura dei mass media. Allontanata l’illusione che “il selvaggio possa rinsanguare la storia”, si sta concludendo drammaticamente il processo di omologazione. Per mezzo del sistema televisivo, il “Centro”, come lo chiamava Pasolini, assimila progressivamente a sé l’intero Paese, imponendo i suoi modelli, che sono poi i modelli della industrializzazione, la quale non si accontenta più solo di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano più concepibili altre ideologie che quella del consumo.

Scriverà Pasolini nel 1974: “…ho detto, e lo ripeto, che l’acculturazione del Centro consumistico ha distrutto le varie culture del Terzo Mondo (parlo ancora su scala mondiale, e mi riferisco dunque, appunto, anche alle culture del Terzo Mondo, cui le culture contadine italiane sono profondamente analoghe): il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico. La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenziale e quindi nel corpo e nel comportamento”.

 La “Trilogia della vita” viene pertanto concepita da Pasolini per dare contenuto poetico alla “realtà fisica del mondo popolare”. Per sottrarsi al mutamento antropologico Pasolini si rifugia nella “arcaicità”, nell’innocenza ossessivamente vitale dei corpi e dei loro organi sessuali. Come scrive Guglielmo Moneti, “… la mossa che Pasolini coraggiosamente gioca è di tentare la rappresentazione di quest’unica realtà, e di farlo attraverso la presentazione del sesso in forme esplicite e immediate”. “Il Fiore delle Mille e Una Notte”, l’ultimo e forse più riuscito film della “Trilogia della vita”, riceverà il Gran Premio Speciale al festival di Cannes del 1974. Ma Pasolini è inquieto, turbato. Nel giugno del 1975 scriverà l’abiura della “Trilogia”, pur non smentendo la sincerità e la necessità che lo avevano spinto a rappresentarla.

Se sul finire degli Anni Sessanta l’ultimo baluardo della realtà parevano gli “innocenti corpi con l’arcaica, fosca, vitale violenza dei loro organi sessuali”, davanti al trionfo della sottocultura dei mass media Pasolini è costretto ad abdicare, a riconoscere il travisamento dei propri fi lm. La rappresentazione dell’eros è ormai sistematicamente violata, manipolata e manomessa dai poteri consumistici e pertanto non può più interessare Pasolini, che, con un gesto altamente simbolico, abiura i fi lm della “Trilogia”, adattandosi mestamente alla degradazione ed “accettando l’inaccettabile”.

Il documentario “Le mura di Sanàa”, come si è detto, viene girato alla fine delle riprese del film nello Yemen, e rappresenta un vero e proprio capolavoro. Ciò che spinge Pasolini a girarlo, invocando l’appello dell’UNESCO, è la stessa scandalosa verità che lo porterà all’abiura della “Trilogia”, la consapevolezza che la distruzione del mondo antico è in atto dappertutto, nello Yemen come in Italia. L’irrealtà dilaga attraverso la speculazione edilizia del neocapitalismo e rispondendo a un’intervista – rara e preziosa per quegli anni – di Giulia Massari, Pasolini afferma che “… lo Yemen è il paese più bello del mondo. Sanàa, la capitale, è una Venezia selvaggia nella polvere, senza San Marco e senza la Giudecca: una città-forma, una città la cui bellezza non risiede nei deperibili monumenti, ma nell’incomparabile disegno. È uno dei miei sogni, occuparmi di salvare Sanàa e altre città, i loro centri storici: per questo sogno mi batterò, cercherò che intervenga l’UNESCO”.

Così come l’indiscriminato desiderio di modernità e progresso “entrato” nello Yemen dopo la nascita della Repubblica Araba dello Yemen e la sconfitta dei monarchici (1968) minacciava Sanàa, le sue mura, il patrimonio di una città unica al mondo, bella di una perfezione irreale, esaltante, “... al posto dell’Italia bella e umana, anche se povera” si andava brutalmente sovrapponendo “...qualcosa di indefinibile, che chiamare brutto è poco”. L’apolide Pasolini, nella parte centrale del suo documentario su Sanàa, fissa così la scena sul paesaggio di Orte, città della Teverina in quegli anni anch’essa minacciata dalla deturpazione edilizia. La città di Orte verrà successivamente prescelta da Pasolini in una fortunata rubrica televisiva (di un genere estremamente raro in quegli anni) del 1974 intitolata “Io e.…”, gestita da un’allieva di Roberto Longhi, Anna Zanoli, per denunciare gli oltraggi edilizi.

Nella mente di Pasolini Sanàa e Orte rappresentano pertanto un ideale di bellezza “povera, genuina, assoluta, ai limiti del deserto e dell’arsione vulcanica”. E così come girando il suo documentario su Sanàa ricorderà Orte, anche nella predetta intervista sulla città di Orte Pasolini ripenserà all’amato Yemen, ricordando con amarezza la distruzione della stupenda porta di granito bianco di Al Mukalla, antica città costiera dello Yemen del Sud ora praticamente irriconoscibile.

Come in un incubo Pasolini vede l’Italia distruggersi e, guardandosi intorno, opera perché nello Yemen ciò non si ripeta. “Per l’Italia è finita, ma lo Yemen può essere ancora salvato… Ci rivolgiamo all’UNESCO in nome della vera, seppur ancora inespressa, volontà del popolo yemenita; in nome degli uomini semplici, che la povertà ha mantenuto puri; in nome della grazia dei secoli oscuri; in nome della scandalosa forza rivoluzionaria del Passato”. Con questo accorato appello Pasolini suggella il suo prezioso documentario su Sanàa. Un breve filmato (circa tredici minuti) ha compiuto il miracolo, ha salvato la città e avviato il processo della sua tutela e salvaguardia.

Dietro le vetrate a mosaico multicolore del funduk Samsarah Yabya Bin Quasim, una piccola locanda di Sanàa, Pasolini medita in cuor suo di inventarsi una nuova vita, lontano dai clamori e dalle banalità di Cinecittà e dalle sterili polemiche letterarie. Sulle scene del film “Il Fiore delle Mille e Una Notte” la sua troupe percorre l’antico mondo orientale trasformandosi in un accampamento di beduini. Il vertice del sogno di Pasolini sarà acquistare un grande natante in vendita in un porto del Golfo Persico. Anche il film “Il Fiore delle Mille e Una Notte” in realtà altro non è che il concretizzarsi di un mondo del tutto immaginario e originale, estraneo tanto alla storia quanto alla stessa letteratura. Il film è infatti la conferma, come ha scritto Guglielmo Monetti, “…del desiderio pasoliniano di una realtà che non esiste, a tutti i livelli, e che solo il poeta, autonomamente, può cercare di costruire”. Il rapporto di Pasolini con le novelle arabe de “Le Mille e Una Notte” è chiaramente e puramente strumentale: lo scrittore/regista usa solo il materiale narrativo che gli interessa, quasi fosse un serbatoio da cui rifornirsi liberamente.

Oggi la furia iconoclasta di una guerra insulsa sta distruggendo sistematicamente un paese, lo Yemen, che dovrebbe custodire le più antiche vestigia umane, e che invece ogni giorno perde un pezzo della sua storia. Il suo popolo è sempre più affamato e oltraggiato, e gli antichi conflitti tribali sono stati sostituiti dalla lotta tra i grandi attori internazionali che mirano a spartirsi il paese, poverissimo ma strategico. Dopo cinque anni di guerra, fame, sete, colera e COVID 19, sembra che una tempesta perfetta voglia definitivamente cancellare dalla carta geografica questo paese antico. Un territorio trasognato che venne descritto da Ludovico De Varthema, Renzo Manzoni e Pier Paolo Pasolini rischia il collasso, e con esso la memoria dell’Arabia Felix (oggi terribilmente Infelix).

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore