Debra Bizen (il Convento della Visione)

Ci muoviamo da Asmara in direzione di Dogali e Massaua. Il pulmino è abbastanza scassato e puzzolente, e le sue gomme sono ai limiti della sopravvivenza. Il copertone della ruota anteriore destra presto scoppierà in discesa e rischieremo di spezzarci l’osso del collo finendo dritti dentro un dirupo. L’autista di etnia cunama inoltre ci fa sempre aspettare: ogni mattina è sempre in perenne ritardo, visto che raccoglie la gente che chiede un passaggio lungo la via, aumentandosi così da sé la paga. Ogni sosta inoltre è buona per lui per comprare ogni cosa: frutta, taniche di benzina, latte, uova, che ovviamente rivenderà alla prima occasione.

La strada che abbiamo appena imboccato è stata realizzata dagli Italiani nel 1936 ed è la più panoramica e spettacolare di tutta l’Eritrea. Attraverso innumerevoli tornanti mozzafiato serpeggia tra montagne terrazzate, i cui fianchi sono ricoperti da estese piantagioni di fichi d’india e eucalipti: scendere da questa strada significa affrontare “tre stagioni in due ore”, tanto vari sono i microclimi di questo territorio.

L’Eritrea è suddivisa in tre grandi macroregioni: l’area centrale temperata e mite, elevata sul plateau dove si colloca Asmara, che presenta la maggior piovosità del paese; la regione desertica costiera che segue parallelamente il Mar Rosso, dove sorge Massaua, caratterizzata da bassa piovosità, clima torrido e forte umidità marina; e infine la regione desertica del nord-ovest che confina con il Sahara sudanese, dove è collocata Cheren. Come scriveva Achille Bizzoni, espulso dalla colonia da Crispi per “vilipendio” nel gennaio del 1896, nel suo “L’Eritrea – nel passato e nel presente” (1897), “[…] la distanza tra Massaua e Asmara è più grande della distanza tra l’Italia e Massaua”. A quell’epoca i collegamenti tra l’altopiano e la costa eritrea erano ancora più difficili in mancanza di strade e di ferrovie. Questa strada seguì il fortissimo movimento del porto di Massaua e fu la diretta conseguenza della necessità di smistare il materiale bellico e le truppe verso l’altipiano. L’ingente movimento di persone e il traffico vertiginoso necessario per rifornire il corpo della spedizione coloniale italiana (350mila uomini) raggiunse il suo culmine tra l’ottobre 1935 e l’aprile 1936; in questi sette mesi giunsero nel porto di Massaua 554 navi con 271mila uomini, 33mila quadrupedi, 716mila tonnellate di materiali e 12mila autoveicoli, e questa strada permise la penetrazione italiana in territorio eritreo in vista della guerra con l’Etiopia.

Durante il periodo coloniale Asmara e Massaua erano anche collegate da una teleferica e dalla ferrovia, altri due veri e propri capolavori ingegneristici. La teleferica aveva uno sviluppo di 71,8 chilometri e superando un dislivello di oltre 2300 metri contribuì al trasporto delle merci dal porto di Massaua verso l’altipiano eritreo; fu realizzata dalla ditta Ceretti e Tanfani di Milano negli anni 1935-37 ed era all’epoca la più grande teleferica del mondo. Poteva trasportare fino a 30 tonnellate al giorno di merci in ciascun senso, pari a quella di 30 treni ferroviari ma con costi molto più bassi. La teleferica rappresentava a quell’epoca la soluzione ideale (e a basso costo) per rifornire centri abitati posti a notevole dislivello tra loro e separati da lande desertiche o boschive. Fu realizzata con un sistema trifune, e quest’opera gigantesca necessitò di lavori di sbancamento immani: le sue parti meccaniche raggiungevano il peso di poco inferiore alle mille tonnellate, e altrettanto pesavano le funi, mentre il peso delle carpenterie raggiungeva le duemila tonnellate e le opere murarie e di fondazione assommavano a 15mila metri cubi di calcestruzzo e cemento. Purtroppo, la teleferica venne smantellata dagli Inglesi, insieme a molte attrezzature e impianti industriali della colonia italiana, che vennero venduti come ferraglia.

La ferrovia Massaua – Asmara nacque anch’essa alla fine dell’Ottocento, inizialmente per esigenze militari. Fu realizzata dagli Alpini e dai Bersaglieri, che dovettero costruire per i 120 chilometri del suo tracciato (sbancando tonnellate di roccia durissima) 64 ponti e viadotti e 30 gallerie: iniziata nel 1888 questa ferrovia aveva originariamente importanza esclusivamente militare. Raggiunse Ghinda nel 1904, Asmara nel 1911 e Cheren nel 1922. In un paese senza strade e in cui gli spostamenti anche minimi richiedevano tempi di percorrenza lunghissimi, la realizzazione di questa via ferrata rappresentò un enorme progresso economico e sociale. Le prime locomotive della Breda e dell’Ansaldo non superavano i 35 chilometri all’ora, ma nel 1934 arrivarono dalle officine della FIAT le prime due “Littorine” che, dotate di motori a benzina da 120 cavalli, viaggiavano a 50 chilometri orari facendo due corse al giorno. La linea ferroviaria nel tratto Ghinda – Asmara ha una pendenza pressoché costante del 35% e curve di settanta metri di raggio minimo. In cinquanta chilometri la ferrovia supera un dislivello di 1500 metri attraverso ardite gallerie e viadotti. I panorami appaiono particolarmente grandiosi quando le nebbie invernali stagnano sulle pianure e sulle vallate, lasciando emergere le più alte montagne dell’altipiano eritreo. Anche la ferrovia subì le stesse sorti della teleferica, e fu ripetutamente colpita, saccheggiata e bombardata dagli Etiopi, e venne chiusa nel 1978, finché nel 1993 gli Eritrei, raggiunta da un paio d’anni l’indipendenza, cominciarono a lavorare per ripristinarla. La riapertura di questa ferrovia divenne uno dei pilastri della riaffermazione dell’identità nazionale eritrea: con scarsi mezzi e utilizzando materiali e manodopera locali fu compiuto un vero e proprio miracolo. Il vecchio personale in pensione (macchinisti, meccanici, tecnici) fu invitato a ripresentarsi al lavoro su base volontaria. Seguì il recupero dei materiali (rotaie e traversine metalliche), che durante la guerra con l’Etiopia erano stati utilizzati per costruire fortificazioni o bunker.

Raggiungiamo la cittadina di Nefasit, posta al bivio della strada per Decamerè a circa 25 km da Asmara. Posta a 1.650 metri di altitudine, essa accolse una stazione climatica per gli Italiani residenti a Massaua o che mal sopportavano l’altitudine (m. 2.350) di Asmara. Dalla stazione ferroviaria un viale alberato di 12 metri di sezione si snoda con andamento sinuoso seguendo le pendenze del terreno. Nei fatti il decollo di questa località come stazione climatica non avvenne mai, e il nuovo piano regolatore del 1937 riflette le mutate condizioni in cui Nefasit si trovò, al bivio della diramazione che raccorda la strada Massaua – Asmara alla “strada imperiale” per Dessiè e Addis Abeba, dopo l’avvio delle operazioni militari che portarono all’annessione dell’Etiopia.

Asmara e Nefasit sono i due luoghi dell’abitare e del permanere, mentre il territorio che li unisce è estremo e fragile, oggi in gran parte deforestato e dove il fico d’india (introdotto dagli Italiani) la fa da padrone disposto su infiniti terrazzamenti, e già durante il periodo coloniale si era configurato soprattutto come luogo di attraversamento. L’unico punto in cui a fine Ottocento si menzionava la presenza di qualche capanna e qualche baracca era l’Arbaroba; si trattava comunque di un piccolo insediamento legato alle vie di comunicazione: qui infatti la mulattiera del Filogobai e la rotabile che partivano da Ghinda si ricongiungevano, e scendendo lungo il versante sud a Mai Hinzi si trovavano acqua fresca e un punto di abbeverata. La costruzione della linea ferroviaria, che qui si congiungeva con la rotabile, fu con ogni probabilità all’origine dell’estendersi e del consolidarsi del villaggio, che ebbe però sempre nella strada la sua centralità. Per questi insediamenti la strada e la ferrovia costituiscono al tempo stesso una garanzia di accessibilità e di protezione: il pericolo di frane e smottamenti, sempre incombente durante la stagione delle piogge, è infatti parzialmente mitigato dalla strada ferrata e dalla strada, che oltre a smorzare le acque di ruscellamento, convogliano l’acqua piovana in modo regolare grazie al sistema di opere d’arte appositamente realizzate, come fossi di guardia, tombini, cunette, ecc. La strada ferrata, vista la scarsità di treni attualmente in uso, è spesso usata come sentiero dalla popolazione eritrea, mentre la prossimità alla camionabile garantisce un facile collegamento con Asmara.

A un certo punto vediamo spuntare dal massiccio del Monte Bizen il profilo di uno dei più famosi luoghi sacri dell’Eritrea: è il famoso convento della Visione (Debra Bizen), posto a 2450 metri di altitudine. Questo convento fu fondato verso la metà del XIV secolo dal monaco Filepos, discepolo del fondatore del Debra Mariam, e nel suo periodo di massimo splendore ebbe ben 900 monaci. Fu descritto da Francisco Alvarez, il cappellano dell’ambasciata del Portogallo che visitò e conobbe l’Etiopia storica, in una sua relazione del 1566, con la quale definisce il monastero “[…] assai vasto, imponente, magnifico” e narra delle sue ricchezze, affermando che “[…] in questo monastero e in tutti quelli che dipendono si ha per regola che non vi possa entrare nessuna donna, nessuna vacca, nessun mulo, nessuna gallina, ossia nessun essere di genere femminile”. Successivamente Filepos si schierò a difesa della regola di Euostatieuos, che ammetteva alcune consuetudini mutuate dal Giudaismo. Egli in realtà era un laico, ed in tutti i conventi aderenti sia l’abate sia i monaci non ricevono ordini e non riconoscono l’intervento del metropolita, servendosi per le cerimonie di preti secolari.

Dopo lunghe lotte e traversie il monastero di Bizen si arricchì di donazioni e fu tra i pochi a sfuggire, come il monastero di Debra Damo (Etiopia), alle devastazioni degli Islamici (che furono sconfitti dai Portoghesi, venuti in soccorso della monarchia copta etiope, nel 1543) e godette di grandissima autorità, tanto è vero che nel trattato di Uccialli il Menelik ne salvaguardò gli interessi di fronte al governo italiano. I monaci dispongono di una biblioteca di circa mille volumi e di un gigantesco evangelo su pergamena, e dalla foresteria del convento, piantata su una roccia che cade a picco per centinaia di metri, si gode di un panorama unico verso il mare, dove nelle giornate limpide si possono scorgere Massaua, le isole Dahlak e il golfo di Zula.

Purtroppo, non abbiamo ottenuto le necessarie autorizzazioni per salire e dobbiamo rinunciare alla visita di questo luogo unico della religiosità eritrea, accontentandoci di scorgerne il profilo avvolto nella nebbia e nella vegetazione. Sulle pendici del Bizen nei mesi da gennaio ad aprile attirano l’attenzione le candide ed odorose corolle dei gelsomini, o quelle violacee delle lantane o i graziosi fiori gialli della Trimfetta flavescens, che si aprono a sera quando il cielo è coperto e si chiudono quando sorge il sole, oppure le grandi corolle degli ibiscus e delle malvacee coi loro colori solfini, giallo-dorati o rosei. Il paesaggio è animato da uccelli dai mille colori, vivaci e dal canto armonioso, come l’uccello flauto.

(Tratto da Alessandro Pellegatta, “Eritrea. Fine e rinascita di un sogno africano”, Besa editrice, 2017)

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore