Terra del Fuoco

Afflitta da una toponomastica poco invitante (Porto della Fame, Canale Ultima Speranza, Baia Desolata, Golfo dei Ladroni ecc.) la Terra del Fuoco venne così chiamata per via degli enormi falò accesi dagli indigeni fueghini per segnalarsi l’arrivo delle inaudite navi di Magellano in cerca del fantomatico stretto che avrebbe permesso di raggiungere le ricchezze dell’Asia . In realtà, Magellano, quando vi sbarcò il 1° novembre 1520, la denominò Terra del Fumo: fu l’imperatore spagnolo Carlo V, forse per riscaldare almeno la toponomastica di quelle terre gelide, a darle la denominazione che tuttora resiste dopo secoli.

Con Magellano viaggiava Antonio Pigafetta, che a Carlo V consegnò una relazione. Terminato nel 1525, il suo scritto uscì in italiano solo nel 1536, quando Pigafetta era già morto da tempo. Parlava di indigeni fueghini come colossi, con la faccia dipinta di rosso e intorno agli occhi di giallo, e con cuori dipinti sulle guance. Seminudi, abitavano rozze capanne. Per secoli la Terra del Fuoco rimase uno dei luoghi più infimi e infami del mondo. Fino alla seconda metà dell’Ottocento, fu luogo di naufragi e drammi marittimi. Quelle terre di rocce e ghiacciai spazzate da venti impetuosi e circondate da un mare perennemente in tempesta vennero in seguito contese da Cile e Argentina, che per annetterle decisero (come era abitudine del tempo) di installarvi delle colonie penali.

Da quel momento, anche nella Terra del Fuoco, così come in tutto il resto del Nuovo Mondo, avvenne il fatale e letale trionfo dell’Uomo Bianco: balenieri, cacciatori di foche, petrolieri, cercatori d’oro, allevatori di pecore portarono germi, alcol, fucili e bibbie che sterminarono in poco tempo la popolazione indigena. Le terre conquistate divennero lo scenario di epopee e avventure estreme. Tra esse ricordiamo quelle di Giacomo Bove, che dopo aver partecipato nel 1878 alla famosa spedizione della “Vega”, che trovò il passaggio a Nord-Est, lungo le coste della Siberia settentrionale, nel 1881 su incarico del governo argentino e comandando il veliero “Cabo de Hornos” effettuò la cartografia dell’isola degli Stati e i canali Magdalena e Beagle. Bove ci raccontò le sue disavventure e i naufragi, raccolse scheletri umani per la nascente scienza antropologica e descrisse con grande umanità la vita davvero grama degli indigeni fueghini, che per riscaldarsi accanto ai fuochi notturni delle loro misere capanne restavano immancabilmente ustionati. Bove verrà in seguito inviato dal governo italiano in una missione esplorativa sul fiume Congo (al posto di Antonio Cecchi, impegnato a Zanzibar e nella colonizzazione della Somalia), da cui tornerà segnato nel fisico e nella mente (morendo suicida nel 1887 a Verona: un suo necrologio venne redatto da Emilio Salgari).

Nel 1910, un altro italiano ventiseienne, figlio della montagna biellese e appena ordinato sacerdote, venne inviato nella Terra del Fuoco con un preciso compito istituzionale. Quest’uomo era Alberto Maria De Agostini, e seppe unire ai suoi doveri di missionario la sua passione per la montagna e la fotografia. Seguendo i sogni mistici del santo Don Bosco, De Agostini scriverà nel 1923 il suo primo dei suoi grandi libri di viaggio e di esplorazione nella Terra del Fuoco.

Prima di Chatwin e Sepulveda, la Terra del Fuoco venne visitata e descritta da altri reporter italiani, quali Mario Appelius (l’autore di “Asia gialla”) e Arnaldo Cipolla, che scoprendo il fascino delle solitudini magellaniche sognò ingenuamente di popolarle con flotte di yacht armate di intrepidi velisti

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore