Le ragioni della guerra in Ucraina

Oggi non c’è telegiornale o media che non stia parlando della guerra in Ucraina. Siamo inondati di immagini terrificanti e da fiumi di parole, ma le analisi sul perché siamo giunti fino a questo punto scarseggiano…e allora mi sono detto: senza sentirmi il depositario di alcuna verità e senza partigianerie, vorrei dire la mia partendo sempre da ciò che mi è più congeniale: l’analisi della storia.

L’Ucraina, nel quadro della generale dissoluzione dell’URSS, era sicuramente uno dei punti più delicati e forieri di pericoli. In questo paese, infatti, i rigurgiti nazionalistici sono emersi tutte le volte che il potere centrale di Mosca ha dato segni di debolezza.

La storia del conflitto attuale, senza andare ad analizzare una storia secolare, risale almeno al 2004, quando nelle travagliate elezioni di quell’anno, che dovevano sancire la sostituzione del gerarca sovietico Kucma, si fronteggiarono Janukovic, russofono e russofilo, e Juscenko, un banchiere vicino all’Occidente e al nazionalismo ucraino. Le elezioni furono truccate, e nella piazza Maidan di Kiev sventolarono migliaia di sciarpe arancioni. Le proteste pacifiche ebbero il sostegno della comunità internazionale, tra cui USA e UE. Alla fine, la Corte suprema ucraina ordinò la ripetizione delle elezioni. Juscenko vinse col 52% dei voti, e venne eletto presidente il 10 gennaio 2005.

La Russia dovette riconoscere l’esito delle nuove elezioni ucraine, ma Putin non sopportò il ‘pellegrinaggio’ occidentale a Kiev, che venne visto e vissuto come un’intollerabile intromissione. Si voleva impedire alla Russia di esercitare la propria influenza su un paese che apparteneva alla storia politica e religiosa russa e che parlava russo.

Le preoccupazioni di Putin si aggravarono allorquando gli USA, nel 2008, approfittarono del vertice atlantico di Bucarest per proporre l’ingresso dell’Ucraina e della Georgia nella NATO. E anche la Georgia era stata teatro di una rivoluzione che aveva anticipato quella in Ucraina.

Fu allora, come oggi, che Putin giocò la carta del separatismo, sfruttando ciò che aveva ideato Stalin. Lo Stato Sovietico individuava infatti in ogni repubblica una nazionalità dominante e una minore: in questo modo il potere centrale di Mosca poteva sempre intervenire come arbitro e gestire i conflitti. L’URSS era pieno di queste contraddizioni. In Ucraina vi erano le regioni russofone della Crimea e del Donbass. Nella Moldavia romena vi era la Transnistria, abitata da una popolazione russo-ucraina. In Azerbaigian l’enclave armena del Nagorno-Karabach e in Georgia le regioni dell’Abchazia e dell’Ossezia del sud.

Cosa successe in Georgia? Nella notte tra il 7 e l’8 agosto 2008 le forze georgiane occuparono l’Ossezia del sud. Gli USA non si mossero, così l’esercito russo, dopo aver cacciato i georgiani, penetrò in Georgia fino a Gori, la città in cui Stalin nacque nel 1878. Grazie alla mediazione del presidente francese Sarkozy, il 15 agosto fu siglato un armistizio, ma qualche giorno dopo (il 26 agosto) la Russia riconobbe l’indipendenza delle repubbliche separatiste caucasiche, lanciando un chiaro segnale al mondo.

La seconda crisi ucraina risale al 2013, al termine delle trattative tra Ucraina e UE per la firma del trattato di associazione. A quel tempo la Russia aveva creato un’Unione doganale ed economica euroasiatica. E l’Ucraina era un paese-chiave, in quanto una sua adesione avrebbe indotto altri paesi titubanti ad aderirvi. Il presidente ucraino Janukovic, russofono e russofilo, che era subentrato a Juscenko, nel dicembre del 2013 accettò i 15 miliardi di dollari e uno sconto del 30% sul prezzo del gas offerti da Putin. Così nella piazza Maidan di Kiev andò in scena lo stesso spettacolo di dieci anni prima. Ma questa volta le manifestazioni pacifiche furono brutalmente represse dalla polizia. La folla, a sua volta, fu appoggiata da un bellicoso partito nazionalista, il Pravij Sektor, e reagì con altrettanta violenza.

Janukovic tentò di mediare, e chiamò l’opposizione al governo del paese. Per mettere fine a quest’ennesima crisi, che contrapponeva in Ucraina l’anima filorussa a quella filoccidentale, fu firmato un accordo il 20-21 febbraio 2014. Ma all’alba del 22 l’accordo era già carta straccia, in quanto l’opposizione si rifiutò di rispettare i patti. Janukovic fuggì in Russia. Pochi all’epoca si chiesero quanto sarebbe costato l’ingresso dell’Ucraina nell’UE, visto che questo paese (che era già stato ‘salvato’ per due volte dal FMI) era in piena recessione ed aveva debiti per 35 miliardi di dollari. Putin e la propaganda russa gridarono ovviamente al ‘colpo di Stato fascista’. Ma il Pravij Sektor, partito dell’opposizione ucraina nato alla fine del 2014, era effettivamente un partito armato della destra ultranazionalista, erede storico delle formazioni ucraine che avevano combattuto con i tedeschi durante la seconda guerra mondiale e fornito uomini alla divisione Galizia delle SS. Agli occhi di Putin, in buona sostanza, questo partito non era altro che l’incarnazione di quel nazionalismo ucraino che aveva combattuto l’URSS a fianco della Germania.

Appena costituito il nuovo governo ucraino di Jacenjuk, fu inoltre abolita la legge nazionale di tutela delle minoranze linguistiche, che diede un ulteriore straordinario assist ai disegni espansionistici di Putin. Il Parlamento della Crimea anticipò al 16 marzo 2014 il referendum popolare, e il 97% della popolazione espresse il desiderio di ricongiungersi alla Federazione Russa abbandonando l’Ucraina. Il 7 e il 28 aprile 2014 anche le due città di Doneck e Lugansk insorsero contro l’amministrazione ucraina e si autoproclamarono repubbliche-satelliti di Mosca. Ancora una volta Putin si serviva di due stati-fantoccio per dire all’Occidente che mai e poi mai avrebbe accettato l’incorporazione dell’Ucraina nella Nato.

Dopo aver usato le maniere forti, che a sua volta scatenarono la reazione ultranazionalista ucraina nel Donbass attraverso l’intervento della brigata Azov, Putin volle comunque socchiudere le porte alla diplomazia. Nei due successivi accordi di Minsk (settembre 2014-febbraio 2015), Francia, Germania, Russia ed Ucraina abbozzarono percorsi di pace, che tuttavia rimasero solo sulla carta.

Negli anni successivi Putin raccolse i migliori dividendi della politica militare russa in Medio Oriente, sollevando il morale di un esercito (quello russo) che faticava a dimenticare i dolorosi ricordi della guerra cecena. L’intervento russo in Siria ha sicuramente cambiato (in peggio) la percezione della Russia in Occidente. Basti solo ricordare che i russi hanno distrutto completamente Aleppo. Ma ancora una volta Putin fu molto abile. Tolse le castagne dal fuoco all’amministrazione Obama: il dittatore siriano, protetto dalla Russia, smentì l’uso delle armi chimiche e così l’amministrazione USA trovò un escamotage per disimpegnarsi dalla carneficina siriana.

Oggi che assistiamo impotenti alla guerra in Ucraina, che rischia di disintegrare l’unità del paese, dovremo forse chiederci se all’origine dell’autoritarismo di Putin non ci sia anche la pessima immagine che le democrazie occidentali hanno dato di sé stesse negli ultimi anni. L’Occidente ha forse una sua parte di responsabilità, nell’aver tentato di far entrare l’Ucraina nella NATO senza voler leggere i chiari e ripetuti ‘avvertimenti’ che Putin ha lanciato. Forse si poteva e si doveva operare diversamente, cercando di preservare l’integrità e l’unità dell’Ucraina facendone uno stato ‘neutrale’ perlomeno sul fronte militare, lasciando aperta una possibile collaborazione sul lato economico con l’UE.

Ma, oltre a dover assistere a questa brutale e selvaggia guerra di aggressione, quello che c’è di peggio è che stiamo rivedendo anche l’Europa peggiore, quella che vede riaprirsi le piaghe del nazionalismo, del militarismo e del razzismo. Anche il linguaggio della competizione politica, interna e internazionale, è sempre più becero, violento e volgare. Se vogliamo però che questa sporca guerra finisca veramente e non si trascini per anni, creando pericolosissimi effetti a catena (lo schema dello stato satellite filorusso è replicabile altrove) dobbiamo avere il coraggio di fare autocritica, cercare delle mediazioni e soprattutto pensare a nuove forma di neutralità che preservino l’Ucraina e il suo popolo. È l’unico modo per indurre Putin alla trattativa.

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore