In memoria di Boris Pahor

Boris Pahor è stato uno scrittore sloveno, naturalizzato italiano (nato a Trieste nel 1913). La vita di questo scrittore è stata strettamente legata agli eventi storici della sua terra d’origine e all’esperienza della comunità slovena della Venezia Giulia. Pahor è ancora un punto di riferimento per i giovani letterati sloveni, ed è stato sempre difensore delle libertà e della dignità dell’individuo, che ha sempre messo al centro dei suoi libri. Viveva a Trieste in via del Monte, davanti al cimitero ebraico. Una via che, come scriveva Saba, “[…] incomincia con una sinagoga e termina ad un chiostro”, che accoglie l’indimenticabile cimitero ebraico, al quale gli orrori del Novecento hanno dato significati sempre più attuali e strazianti (e a cui Saba stesso, quando scrisse la poesia “Tre vie”, non pensava sicuramente[1]).

Per decenni Trieste, sotto l’impero asburgico, fu una città che si può giustamente vantare del proprio passato glorioso mitteleuropeo, di cui oggi se ne intravede, malgrado tutto, ancora qualche spiraglio luminoso. Una mescolanza di radici latine, germaniche e slave, che hanno contribuito a costituire l’identità plurime di questa città di confine. Poi, però, c’è stato chi ha cercato con la violenza di determinare il sopravvento della propria identità cercando di sradicare quella considerata con arroganza e prepotenza “inferiore” o “nemica”, così annichilendo l’identità stessa della città di Trieste.

L’emblema di questo scontro, di questa arroganza, di questa prepotenza (e che alla fine non fece che rinfocolare l’opposto nazionalismo slavo che portò alle foibe) è stato certamente il Narodni dom, e questo in una città che conobbe nel corso del Novecento plurime violenze nazionaliste. Esso non era solo un centro culturale ed economico sloveno, ma rappresentava un edificio che, fisicamente, era il simbolo vivente delle varie anime e identità storiche di Trieste, e che andava a completare quel puzzle dell’essenza mitteleuropeo di questa città. In questo potente “contenitore” era presente anche il famoso Hotel Balkan con 62 stanze, uno dei più moderni d’Europa per l’epoca, con palestre, due ristoranti, un caffè, una tipografia, una sala di lettura, un teatro con oltre 400 posti a sedere, e dove trovavano ospitalità società di vario tipo, da quelle musicali a quelle teatrali, da quelle sportive a quelle di mutuo soccorso. Era un qualcosa di unicum, irripetibile.

Questo edificio venne assaltato dai nazionalisti italiani, capeggiati dal dannunziano Giunta. Il 21 luglio del 1920 alla Camera del Regno d’Italia il deputato Barberis fu il primo a portare nelle aule di Roma la prima testimonianza di quanto accadde a Trieste il 13 luglio del 1920 evidenziando che si trattava di opera “dei nazionalisti teppisti”. Il 13 luglio 2020 è pertanto ricorso il centenario dall’avvenimento di questo tragico evento, che sconvolse Trieste dando origine alla persecuzione nei confronti della comunità slovena e che determinò la fine del melting pot triestino[2].

Come leggiamo nell’Enciclopedia Treccani[3],tutta la regione adriatica, che parte grosso modo dalle foci del fiume Isonzo e si sviluppa in particolare lungo la costa della Dalmazia, è stata da sempre una terra multilingue dove, dal crollo dell’Impero romano in poi e con l’insediamento delle popolazioni slave, vivevano, sotto il segno della tradizione cattolica, italiani, sloveni e croati. Dal punto di vista etnico, gli slavi, che hanno un’origine indoeuropea, provengono dall’Europa orientale e si distinguono in tre grandi gruppi: quello occidentale, che comprende i polacchi, i cechi, gli slovacchi, i lusaziani o sorabi; il ceppo orientale, costituito dai russi, dagli ucraini e dai bielorussi; e infine quello meridionale, costituito dai serbi, dai croati, dai macedoni, dai bulgari e dagli sloveni. (I bulgari hanno origine turco-mongola, e hanno di fatto rinunciato al proprio ethnos). Gli sloveni sono la nazione più occidentale e meno numerosa tra gli slavi del Sud.

Scipio Slataper scriveva come Trieste avesse, di fatto, due anime: quella italiana e quella slava, e questo in una città che è arrivata a registrare la presenza di 90 diverse etnie e di molte religioni. Tra tutti furono gli sloveni l’unica comunità nazionale minoritaria autoctona del territorio triestino e del suo entroterra.

La presenza slovena ha segnato la città di Trieste molto prima della sua fioritura economica. Trieste, nel corso della sua storia, è stata un riferimento importante non soltanto dal punto di vista economico ma ha rappresentato la possibilità, per il mondo sloveno centrale, di rapportarsi con civiltà e culture diverse, che non fossero protese unicamente verso il Centro-Europa (Vienna, Praga, Cracovia), dove, di fatto, l’intellighenzia slovena veniva perlopiù formata (almeno fino al 1918, anno in cui venne fondato l’Ateneo di Lubiana).

Dopo il 1848 cominciò a consolidarsi anche tra gli sloveni la coscienza dell’identità nazionale, che venne a manifestarsi con la fioritura di numerose associazioni musicali, teatrali, sale di lettura, circoli politici, organi di stampa. Trieste divenne così, proprio per quella la sua particolare conformazione multietnica, multireligiosa e multilingue, il laboratorio del cosmopolitismo e della collaborazione delle singole comunità slave, in un’epoca contraddistinta soprattutto dall’idea di panslavismo, sotto l’influsso herderiano del trattato “Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit”, in cui l’autore illustrava le virtù dei popoli slavi. Nel frattempo, anche tra gli italiani a Trieste si consolidavano le idee irredentiste contro il potere asburgico, oppressore del patriottismo italiano.  

La prima guerra mondiale fu un vero e proprio spartiacque nei rapporti sloveno-italiani. Nel 1915 fu, infatti, stipulato in segreto il Patto di Londra tra l’Italia e la Triplice Intesa. L’Italia si impegnava a entrare in guerra, e in caso di vittoria le sarebbero stati assegnati cospicui territori, tra cui la Venezia Giulia, l’Istria e parte della Dalmazia. Fu proprio la non completa realizzazione delle promesse territoriali nel dopoguerra a generare il mito della “Vittoria mutilata”, che fu utilizzato come strumento per minare lo Stato liberale e promuovere il fascismo, che nel 1919 nacque a Milano sotto il movimento di San Sepolcro e che in seguito venne “normalizzato” da Mussolini, prendendo una piega autoritaria, violenta e nazionalistica.

Alla fine della guerra, con il crollo dell’Impero asburgico, sulle rovine della vecchia Austria-Ungheria nacquero così nuovi Stati sovrani, specie nell’Europa centrale. Venne fondata anche la monarchia jugoslava – il Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni. Nel 1920 fu sottoscritto il Trattato di Rapallo, che sanciva l’annessione all’Italia del territorio, detto della Venezia Giulia, come previsto dal Patto di Londra: divennero così cittadini italiani complessivamente circa 500.000 sudditi della monarchia jugoslava, in maggioranza sloveni. Nonostante le promesse fatte dalle autorità, già dall’inizio degli anni Venti, e in modo incisivo dopo l’ascesa al potere di Mussolini, sanciti dalle leggi fasciste, vennero messi in atto una pesante snazionalizzazione, un genocidio culturale e nazionale, di cui esiste ampia e documentata letteratura. E nel 1938 proprio a Trieste Mussolini parlò delle leggi razziali, adottate dall’Italia fascista.  

Alla fine della prima guerra mondiale, il governatore italiano della Venezia Giulia, il generale Carlo Petitti di Roreto, pubblicò un decreto che dovette essere reso pubblico e letto persino in chiesa, in cui l’Italia, ‘terra di grandi libertà’, dichiarava di voler dare agli sloveni gli stessi diritti di quelli goduti dagli altri cittadini, e che avrebbe inoltre istituito un maggior numero di scuole in lingua slovena di quante ce ne fossero state sotto gli Asburgo. Peccato che, contestualmente, pubblicò anche un decreto, in cui si ordinava l’espulsione di tutte le persone ritenute sospette. Ebbe così inizio il tragico destino della gente slovena del Litorale: molti intellettuali e molti rappresentanti del clero sloveno migrarono spontaneamente, ma un gran numero fu costretto all’esilio. Molti furono mandati al confino in Sardegna o altrove, altri esuli in Jugoslavia. Ciononostante, alla fine della prima guerra le attività culturali slovene ripresero lentamente il proprio corso.

Ben presto, e ben prima della marcia su Roma (ottobre 1922) e dell’ascesa al potere di Mussolini, e precisamente la sera e la notte del 13 luglio 1920, la furia nazionalista e squadrista dette alle fiamme l’edificio del Narodni dom, ma si scagliò anche contro altre sedi di istituzioni, istituti bancari, abitazioni private di sloveni e slavi a Trieste[4]. La squadra ebbe come comandante Francesco Giunta (1887-1971), squadrista e fascista, segretario del Partito nazionale fascista (PNF), governatore della Dalmazia, di cui la Jugoslavia, nel 1946, tramite la Commissione alleata, richiese invano l’estradizione all’Italia, accusandolo di crimini di guerra. Giunta ebbe a scrivere come “da Trieste, pulita con ferro e fiamme, ebbe inizio l’epopea fascista”.  Boris Pahor assistette all’incendio con la sorellina Evelina che allora aveva poco più di quattro anni. L’esperienza lo traumatizzò: ne scrisse nella novella “Il rogo nel porto”, che dà il titolo all’omonima silloge di prose brevi[5].

«Tutta Trieste stava a guardare l’alta casa bianca dove le fiamme divampavano a ogni finestra. Fiamme come lingue taglienti, come rosse bandiere (…) gli uomini neri intanto gridavano e ballavano come indiani che, legata al palo la vittima, le avessero acceso sotto il fuoco. Ballavano armati di accette e manganelli».

Con gli occhi di Branko ed Evka, due bambini di origine slovena che crescono nella Trieste del primo dopoguerra, Boris Pahor ripercorre con l’arte del racconto uno dei capitoli più drammatici della storia europea del Novecento. In una città uscita divisa dopo gli esiti della prima guerra mondiale, in cui italiani, sloveni e slavi in genere si guardano con diffidenza, Branko ed Evka crescono tra i giochi e le paure dei loro coetanei, immersi nelle lingue e nelle culture della Mitteleuropa. Quel 13 luglio del 1920, giorno in cui le squadracce fasciste incendiarono la Casa della cultura slovena di Trieste, iniziò la caccia allo straniero, e anche i giochi dei bambini dovettero mutare per sempre. L’atmosfera idilliaca nostalgicamente ricordata da Saba fu sostituita dalla violenza e dall’odio etnico.

La situazione mutò rapidamente e in breve tempo: le leggi imponevano altre pesanti misure economiche, che fiaccarono ancor più la comunità slovena. Gli istituti di credito subirono pesanti perdite nel passaggio da una sovranità statale all’altra, e il cambio dei depositi di valuta fu assai sfavorevole. Si volle colpire l’economia in quanto il capitale in mano slovena e slava a Trieste, prima del 1918, ammontava circa al 50% di tutto il capitale triestino. Con l’avvento del fascismo la situazione si inasprì ulteriormente. Nel 1927 furono soppresse tutte le associazioni e le istituzioni slovene. I cognomi furono italianizzati per decreto. Furono cambiati, italianizzati, storpiati cognomi e nomi propri, a volte addirittura scalpellate le lapidi cimiteriali. La lingua slovena venne proibita ovunque, nelle scuole lo sloveno fu abolito.

In questo contesto nacque e si sviluppò tra gli sloveni del Litorale un forte movimento antifascista, considerato il primo in Europa. Il regime fu durissimo nel tentare di reprimerlo, tanto da istituire ben due processi del Tribunale speciale a Trieste: il primo nel 1930, il secondo nel 1941. Il Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato fu istituito da Mussolini nel 1926. Era un tribunale itinerante che si spostava lungo l’Italia. Il consiglio dei giudici era costituito da ufficiali della polizia fascista in camicia nera. L’unica città in cui il Tribunale speciale promosse due processi distinti a distanza di undici anni fu Trieste. Nove delle complessive trentuno condanne a morte, pronunciate dal Tribunale in tutta l’Italia, furono destinate ad antifascisti sloveni. Nel 1930, al cosiddetto Primo processo di Trieste, i condannati a morte furono Ferdo Bidovec, Fran Marušič, Zvonimir Miloš e Alojz Valenčič, fucilati a Basovizza il 6 settembre. Il monumento, eretto nel luogo dell’esecuzione, fu più volte profanato anche negli anni più recenti. Ogni anno, in questa data, migliaia di persone si radunano per commemorare queste prime vittime dell’antifascismo in Europa. Più volte, in quest’occasione, è stato invitato a parlare anche Boris Pahor.

Il II processo di Trieste ebbe come protagonista principale il comunista Pino Tomažič (il processo è infatti noto anche come Processo Tomažič). Gli altri quattro condannati a morte furono Viktor Bobek, Ivan Ivančič, Ivan Vadnal e Simon Kos. L’esecuzione ebbe luogo al poligono di Opicina (Opčine), nei pressi di Trieste il 15 dicembre 1941 (che è ancora un’area militare, dove non è consentito l’accesso). I caduti vennero seppelliti in luogo segreto. Fu la sorella di Ivančič a scoprire il luogo di sepoltura a Fontane presso Villorba, a Treviso, ma dovette mantenere il segreto fino alla fine della guerra, quando le spoglie dei cinque fucilati vennero trasportate a Trieste. Le esequie solenni vennero celebrate in piazza Unità il 28 ottobre 1945. Sul luogo della sepoltura segreta, nel 2014, alla presenza di Boris Pahor, venne inaugurato un monumento ai cinque caduti.

Agli inizi di aprile del 1941 vi fu l’invasione della Jugoslavia da parte dell’asse italo-tedesca. Immediatamente gli sloveni si mobilitarono e fondarono il Fronte di liberazione nazionale – Osvobodilna fronta slovenskega naroda, cui aderirono tutte le forze antifasciste. Molti furono allora gli sloveni deportati nei campi di concentramento fascisti. Dalla fine del 1943 e fino al 1945 l’armata partigiana jugoslava, capitanata da Josip Broz Tito, combatté quella nazista. La Chiesa di Lubiana si oppose strenuamente al Fronte di liberazione in nome dell’anticomunismo e si schierò dalla parte dell’occupante, creando nel contesto sloveno il doloroso fenomeno dei domobranci, difensori della patria, come ebbero a chiamarsi i collaborazionisti.

I domobranci si stabilirono anche a Trieste e furono loro ad arrestare Boris Pahor che, dopo il 1943, aderì alla Resistenza slovena. Fu deportato in Germania. Dal mese di settembre 1943 partirono da Trieste per la Germania numerosi convogli. Il 26 febbraio 1944 fu la volta del convoglio 28, sul quale si trovava anche Boris Pahor. Ne sono partiti da Trieste per Dachau complessivamente 69 documentati, altri 13 sono probabili. Dalle testimonianze risulta come nei vagoni triestini ci fossero perlopiù sloveni e croati.

A Trieste fu istituito l’unico campo di sterminio nazista su territorio italiano, la Risiera di San Sabba, oggi monumento nazionale, in cui morirono italiani, sloveni, croati e ebrei (fu, perlopiù, per gli ebrei innanzitutto luogo di transito). Scrive Boris Pahor nel suo libro “Triangoli rossi” (Bompiani 2015):

 “…la cenere e le ossa delle vittime bruciate finivano in mare, gettate vuotando i sacchi dalla riva vicina al rione di San Sabba, dove si trova la Risiera”.

Ancora oggi non si conosce il numero esatto delle persone, che sono passate attraverso la Risiera; gli ebrei, per esempio, venivano mandati per lo più a morire ad Auschwitz: si calcola un numero dai due ai quattro mila, altri dicono cinque mila prigionieri.

Anche sul modo di uccidere i detenuti esistono più versioni. Pare sia stato usato il gas dei tubi di scarico immessi in vettura chiusa, ma il modo più barbaro, che non dava la certezza che il corto avviato alla cremazione fosse effettivamente quello di un cadavere, finendo così col cremare un corpo ancora vivo, era il colpo alla nuca con un battaglio di ferro. Si sono raccolte delle testimonianze terribili sui metodi d’inchiesta, d’interrogatorio in questo Campo. Qualcuno avrebbe addirittura intravisto, di sfuggita, una ragazza con il ventre azzannato da un cane. Il primo soldato entrato nella Risiera il giorno della liberazione, si sarebbe trovato davanti ad un corpo appeso ad un gancio, come in una macelleria. Nelle celle i prigionieri hanno lasciato delle testimonianze delle torture subite.

La liberazione di Trieste dall’occupazione nazista avvenne i primi giorni di maggio del 1945 da parte delle truppe partigiane jugoslave, in cui la componente rivoluzionaria marxista aveva prevalso su quella nazionale. Si ebbero, subito dopo la guerra, dei tragici eccidi, perpetrati dall’esercito jugoslavo a Trieste (e in tutto il territorio sloveno), che segnarono profondamente i rapporti italo-sloveni e che si collegano principalmente alla componente ideologica. Il territorio della Venezia Giulia e dell’Istria venne diviso in due zone: la zona A, sotto il controllo del Governo Militare Alleato, comprendeva le città e le province di Trieste e Gorizia; la zona B, sotto il controllo jugoslavo, la città di Capodistria e parte della penisola istriana. Tale divisione del territorio si consolidò dopo il 1954, quando la zona A divenne definitivamente italiana, la zona B rimase, invece, alla Jugoslavia. Tale situazione venne definitivamente sancita e confermata dal Trattato di Osimo del 1975.

Nel 1991 la Slovenia, a seguito di un plebiscito, dichiarò la propria indipendenza dalla Jugoslavia e divenne una repubblica autonoma. Entrò a far parte dei paesi della NATO e, nel 2004, divenne uno dei paesi membri dell’Unione Europea. Nel 2001 la comunità nazionale slovena stanziata lungo tutto il confine orientale dell’Italia vide approvata dallo Stato italiano la legge per la sua tutela, legge che tuttora non è stata applicata nella sua totalità. I rapporti italo-sloveni, molto tesi durante tutto il Novecento, si sono finalmente normalizzati. I confini sono caduti, ma restano i limiti e le memorie che la storia ha definito nelle coscienze dei singoli. Per costruire un futuro di reciproca comprensione e pacifica convivenza entro i comuni confini dell’Europa dobbiamo rispettare la memoria e la storia.

Ma purtroppo l’Italia è un paese che non ha mai fatto fino in fondo i conti con la propria storia, nazionale e coloniale, non ha mai avuto una sua Norimberga, e sappiamo bene il perché. Ci sono ancora silenzi che fanno rumore, oppure si scatenano polemiche feroci ma di scarso costrutto, dove tutti dicono la loro, tutti parlano ma nessuno ascolta chi (probabilmente) avrebbe qualcosa da dire e preferisce starsene in silenzio. Molti italiani non vogliono conoscere questa storia, e continuano a cullare le illusioni e le nostalgie del fascismo, del mito della Grande Italia. Inneggiano ai crimini di guerra, alle gesta oscene di Rodolfo Graziani, e vivono nel culto del mito Italiani? Brava gente, dell’assunto che Mussolini ha fatto anche cose buone.  E forse verrebbero ancora un uomo forte e solo al comando. Negazionismo, nazionalismo e revisionismo stanno cercando di capovolgere la storia. Tira una brutta aria in tutta Europa, e questa epidemia del COVID 19 fa emergere sempre più i limiti di un’Europa incompiuta, poco solidale e attenta ai più deboli, e soprattutto i limiti dei sovranismi che stanno dilagando ovunque, in Italia come nell’Europa centrale.

Restituire pertanto il Narodni dom agli sloveni non è un regalo, ma è un atto doveroso, a prescindere da quello che possano prevedere leggi che attendono da tempo la loro attuazione. È un atto di pacificazione storica che deve accomunare tutti. La sua distruzione, giusto un secolo fa, ha segnato l’inizio del fascismo del confine orientale, e che ha comportato tragedie, conflitti e lutti che si son prolungati fino alla fine della seconda guerra mondiale. Con l’atto della restituzione si realizza la pacificazione storica con la quale, questa volta per davvero, “se pol” (alla triestina) ricominciare un nuovo percorso, una nuova vita e mettere una pietra tombale su un passato che rappresenta la maledizione di questa città.


[1] Tre vie è la poesia centrale di Trieste e una donna, con cui Saba descrive (con lo sguardo e con l’anima) tre differenti vie di Trieste: Via del Lazzaretto Vecchio, odorosa di droghe e di catrame (dove, in un angusto negozietto “le lavoranti scontano la pena / della vita: innocenti prigioniere / cuciono tetre le allegre bandiere”); Via del Monte (un camposanto ebraico abbandonato); e infine Via Domenico Rossetti, una via allegra che non è più campagna ma nemmeno città.

[2] Su tale ricorrenza il Venerdì di Repubblica del 3 luglio 2020ha dedicato un articolo a firma di Raffaele Oriani (foto di Andrea Lasorte), pp.44-47.

[3] Boris Pahor e la cultura slovena a Trieste, a cura di Tatjana Rojc – Enciclopedia Treccani on line.

[4] Oltre al Narodni Dom i fascisti italiani distrussero altre importanti istituzioni slovene e slave a Trieste, tra cui: il ristorante “Al Gallo” in piazza Oberdan; la Banca Adriatica  all’angolo tra la Cassa di Risparmio e Via San Nicolò; la Banca di Risparmio croato in piazza della Scorta 3; l’azienda Franz & Kranz (comproprietà ceca) in Via Machiavelli 32; la Scuola popolare della Chiesa serba in via Bellina; il Caffè Commercio in via XXX Ottobre 11, gli uffici legali Kimovec in piazza Oberdan 5,  Pretner-Okretic in via Machiavelli 15; una libreria e un negozio di carta in via Milano 37; un magazzino per lo stoccaggio in via Torre Bianca 39 ecc.

[5] Boris Pahor, Il rogo nel porto, Zandonai editore, Collana I fuochi, Rovereto, 2008

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Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore