Ladakh

Il Dalai Lhama ha detto che andare per montagne è uno “sciocco piacere”. Sarà, non c’è bisogno di faticare arrancando e di salire ansimando per comprendere il significato della Montagna, la sua essenza simbolica. Nessun monaco buddhista scalerebbe mai le sacre vette dell’Himalaya. Ma noi occidentali, frustrati e sempre più costretti negli spazi angusti, liberi ormai dai bisogni materiali e con troppo tempo libero a disposizione, qualcosa dobbiamo pur inventarci.

Come ha scritto Walter Bonatti nel suo “Montagne di una vita”, questo procedere “oltre” è insito nella natura umana, ed è all’origine di ogni azione. Occorrono migliaia di piccoli passi per salire, e spesso più della bravura conta l’esperienza. Camminare è un po’ come pregare, e Mallory e Irvine stanno in fondo ancora pregando da qualche parte sul Tetto del Mondo alla ricerca del loro perduto sogno di scalatori.

Montagna significa Ladakh, e non solo. Cosa centra il Ladakh con l’Asia centrale e la Persia ? Il Ladakh, luogo di coltivazione dell’orzo da secoli, ha intrecciato un fitto interscambio commerciale con il Tibet. I coltivatori ladakhi scambiavano orzo e ricevevano lana e sale dai plateau del Tibet. Il Ladakh è inoltre il territorio attraverso il quale, a cavallo tra i sistemi montuosi dell’Himalaya e del Karakorum, la fibra “pashm” (o cashemere) proveniente dal Tibet giungeva a Srinagar per essere lavorata. In aggiunta, Leh (la capitale del Ladakh) si posizionava a metà della rotta meridionale della Via della Seta, e vi si trafficavano tappeti, tessuti e narcotici provenienti dal Punjab e che a loro volta proseguivano per la famosa città carovaniera di Kashgar nell’attuale Xinjiang cinese. In senso inverso, Leh era anche il crocevia delle carovane che dall’Asia centrale andavano in Tibet dopo aver attraversato il Karakorum Pass. A questi traffici si aggiungevano quelli trans-himalayani. Purtroppo queste antiche rotte carovaniere sono venute meno dopo il 1947, con la chiusura dei confini indo-pakistani e col sorgere della rivalità indo-cinese.

Il Ladakh è sempre stato (e lo è tuttora) una zona di transizione, anche in senso religioso e culturale, la “frontiera” tra Buddhismo e Islam: lo separa dal Tibet solo una linea artificiale, che separa un “continuum” geografico. Il Ladakh è anche un’area dove il Buddhismo si è diffuso sovrapponendosi all’antico animismo della religione Bon: entrambe i credi identificano tuttora nel Kailàs la Montagna Sacra, l’Axis Mundi che unisce le regioni celesti a quelle terrene. Il Buddhismo nel Piccolo Tibet (come viene anche denominato il Ladakh) è inoltre pervaso da una forte componente tantrica (Vajrayana), la terza e ultima trasformazione del Buddhismo indiano che può essere considerata una sorta di derivazione del “Mahayana”, e che si esprime attraverso complesse componenti iconografiche e mitologiche. L’uso della trance, la presenza dello sciamanesimo e le danze cerimoniali “cham” (maschere) sono solo alcune manifestazioni dell’essenza tantrica del Buddhismo in Ladakh.

Ho visitato il Ladakh nel 2008, ricavandone uno straordinario insegnamento. Sono rimasto ammaliato dai silenzi dei suoi “gompa”, dai suoi laghi cobalto e delle sue vallate desolate. La mia memoria resta permeata dal vento che anima le mille bandiere preghiera dei suoi passi arditi, e dalla fede che costruisce i muri “mani”, realizzati con le pietre incise dai “mantra”. Il Ladakh resta dominato dai colori assoluti delle alte quote. Il bianco della calce dei “chorten” e delle concrezioni saline dei laghi. Il rosso delle rocce. Il nero dei sassi levigati dal procedere incessante delle acque e delle divinità terrifiche. Il verde dei campi di orzo coltivato tra sterili altipiani desertici. Rivivo le suggestioni delle antiche vie commerciali, delle lunghe file dei cammelli battriani che dalla Nubra Valley si dirigevano al Karakorum Pass.

La storia contemporanea è purtroppo ancora intrisa di lutti e di tragedie, di odio e di violenze, che stanno attraversando non solo il Kashmir ma tutta l’India. Un’ondata inaudita di violenze si sta scatenando tra i poveri, e l’integralismo induista sta prendendo di mira anche la minoranza cristiana, “colpevole” di praticare la conversione in massa dei “paria”. Per sfuggire a tutta questa violenza senza senso mi sono rifugiato nelle montagne intorno al lago Tso-Moriri, incontrando gli antichi nomadi chan-pa che pascolano le capre pashmine su desolate pietraie. Quelle strette di mano, nella solitudine assolute a 5000 metri di altitudine, valgono più di mille considerazioni e riflessioni. Dalle semplici tradizioni di questi popoli montanari, che si muovono in simbiosi con una natura aspra, dura, e poverissima di risorse dobbiamo imparare molto per tornare a rispettare l’ambiente e per progettare un nuovo “modus vivendi”, meno aggressivo e consumistico.

C’è anche bisogno di un nuovo progetto per un Mondo sostenibile e giusto. Nel mio viaggio di ritorno da Leh fino a New Delhi ho voluto fermarmi anche a Chandigar. Seduto nella hall di un alberghetto, con le narici narcotizzate dalla naftalina usata a profusione per tenere lontani gli insetti, ho segnato un nuovo Le Corbusier che sapesse progettare città più umane e mettere mano all’inferno delle mostruose concentrazioni urbane dell’India.

Si sa, il futuro ha sempre un volto antico. La città di Le Corbusier è sempre più segnata dagli anni e all’incuria, ma il suo disegno e la sua realizzazione rimangono dopo più di 50 anni una pietra miliare del Genere Umano, e l’UNESCO nel 2006 ha posto sotto tutela questa città “futurista”. Rimane questo monumento della Mano Aperta di Chandigar, “…un segno – come disse Le Corbusier – di pace e di riconciliazione,…per ricevere le richieste create e per distribuirle ai popoli del Mondo”. Purtroppo, la mano, il segno distintivo dell’uomo, secondo George Orwell, è anche “…lo strumento col quale (l’uomo stesso) fa tutto ciò che è male”. Da qui voglio ripartire, da questa gigantesca “Fattoria degli animali”, dal caos di un Mondo sempre più svilito e globalizzato e percorrere, tra gioie e dolori, il mio cammino e cercare di dare un senso a questo mio vagare. E non c’è mai viaggio senza ritorno, senza testimoniare ciò che vediamo e proviamo.

(Nella foto: danze Cham)

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore