Trieste e lo strano connubio Svevo-Joyce

Come ha scritto Carlo Serafini, con Svevo e Joyce siamo di fronte a due figure di grande rilievo della letteratura, a due mondi vastissimi sui quali molto è già stato scritto sia su ciascuno di essi sia riguardo al loro incontro e alla loro frequentazione.

Nel suo prezioso volume[1], Serafini ha tentato di dare risposta ad una serie di interrogativi che possano aiutare a far chiarezza sulla reale natura del loro rapporto, nonché a far luce su ciò che spinse lo scrittore triestino a parlare, nella conferenza dell’8 marzo 1927, del “mercante di gerundi[2]. Valutare con esattezza l’entità del loro rapporto è cosa complessa che deve tener conto di molti piccoli particolari, alcuni in apparenza quasi insignificanti.

Partendo dalla banale ma necessaria considerazione che senza il loro incontro la letteratura italiana ed europea sarebbe oggi meno ricca ed interessante, possiamo dire subito che tra Svevo e Joyce vi erano differenze molto marcate. L’età innanzitutto: Svevo, nato nel 1861, Joyce nel 1882, ventuno anni di divario. Come ha sottolineato Serafini, Svevo era un uomo d’affari, con conoscenze importanti nell’ambiente mercantile triestino ed internazionale, inserito in un ambiente sociale altolocato e stimato, mentre Joyce era uno straniero alquanto bizzarro, che frequentava fino a tarda notte le bettole della città.

La fede religiosa si era totalmente persa in Joyce, mentre in Svevo era passata (per volere della moglie, e ingenerando in lui un incancellabile senso di colpa) dall’ebraismo al cattolicesimo. Erano molto diversi anche per condizione economica: Svevo era un ricco mercante di vernici per scafi di navi, ed era sposato con la ricca Livia Veneziani, mentre Joyce era costretto a dare lezioni di inglese per tirare avanti (mentre la moglie Nora, alla fine, per sbarcare il lunario, dovette stirare per casa Schmitz).

Scrive Serafini:

“[…] È indubbio che Svevo ammirasse la libertà interiore di Joyce, il coraggio che lo aveva spinto a lasciare il paese con moglie e figli, la sua maniera di comportarsi così libera e non convenzionale. Egli, ricco borghese, costretto da rigidi vincoli classisti, non avrebbe mai potuto comportarsi come lui, e questo non poteva far altro che suscitare una velata forma di invidia per una vita che lo scrittore triestino non sarebbe mai stato capace di vivere. Ma di pensare sì. Inoltre, non va dimenticato che quando Svevo conobbe Joyce egli stava vivendo in pieno la forte frustrazione del suo fallimento letterario e l’impossibilità quindi di realizzarsi come artista”

Resta inoltre un episodio emblematico. La mancata prefazione di Joyce all’edizione inglese di “Senilità”.

La decisione, che non stupisce in Joyce (uomo dalla personalità alquanto suscettibile), era in aperto contrasto con quanto promesso a Livia Veneziani (moglie di Svevo) dopo la morte del marito, e cioè di fare tutto il possibile per tenere desta la memoria dello scrittore. Nonostante le proteste dell’editore, Joyce fu irremovibile e non tornò sulla sua decisione.

In una sua lettera del 29 marzo 1932 inviata al fratello Stanislaus, lo scrittore irlandese nega di essersi mai impegnato a scrivere quella prefazione e che i suoi rapporti con la signora Svevo erano sempre stati corretti ma freddi, formali; Joyce indica ancora al fratello che, nonostante la grande disponibilità e liberalità di casa Veneziani nel riceverlo, lui non era mai stato considerato un ospite, bensì di avere frequentato quella casa solo come insegnante.

Sempre nella citata Lettera, Joyce sottolinea la venerazione di Svevo per il denaro e rimarca inoltre come sua moglie, Nora, si sentisse disprezzata dalla signora Livia, che, incontrandola per strada, fingeva di non vederla. Inoltre, sembra che la Veneziani sparlasse di Nora dicendo che non frequentava la società mercantile di Trieste accanto al marito a causa della mancanza di un guardaroba adatto.

Molti tuttavia restano i lati positivi della relazione tra i due scrittori, che testimoniano i rapporti di reciproca stima (perlomeno sul piano letterario); Joyce apprezzò molto i primi due libri di Svevo: «Ma lo sa che Lei è uno scrittore negletto? Ci sono dei brani in Senilità che neppure Anatole France sarebbe stato in grado di scrivere meglio». Questa frase riempì di gioia Svevo. Fu Joyce ancora a consolare Svevo per l’iniziale disappunto creato dalla “Coscienza di Zeno”, ritenuto subito dal dublinese il miglior libro di Svevo. Troppo noto perché lo si debba ripetere fu anche l’interessamento di Joyce in Francia che portò all’esplodere del “caso Svevo”[3].


[1] Carlo Serafini, La conferenza di Svevo su Joyce, Bulzoni, Roma, 2002.

[2] Questo era il nome con cui Svevo chiamava Joyce.

[3] Più tardi, Prezzolini disse: «[…] senza Joyce e Valéry Larbaud e Crémiex (gli ultimi due amici di Joyce) nessuno di noi si sarebbe preso la pena di leggere i romanzi di Italo Svevo» (da G. Contini, Svevo, Palermo, Palumbo, 1966, p. 84). Non va dimenticato che a prendersi la “pena” di leggere i romanzi di Svevo ci fu Roberto Bazlen, grandissimo talent scout ed intellettuale sempre rimasto nell’ombra; suo fu il merito di aver “scoperto” Svevo in Italia e di aver dato i romanzi a Eugenio Montale. Montale fu inoltre destinatario di numerose lettere con cui Svevo lo metteva al corrente dell’elaborazione e della stesura della sua conferenza su Joyce (si veda, in particolare, la lettera inviata a Montale il 1° dicembre 1926).

Nell’immagine: James Joyce

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore