Tommaso Besozzi e il “sogno del settimo viaggio”

Dopo la disfatta militare di Cheren del 1941, gli Italiani residenti nelle ex Colonia Eritrea vissero un’anticipazione di quello che sarebbe avvenuto nella stessa Italia dopo la caduta del fascismo. I britannici smantellarono i principali impianti industriali, specialmente a Decamerè e Massaua, e li vendettero altrove. Non fu risparmiata neanche la teleferica Massaua – Asmara, un capolavoro dell’ingegneria italiana. In questa progressiva disintegrazione politico-sociale, gli sciftà imperversavano nella colpevole indifferenza dei britannici stessi, tiranneggiando e saccheggiando i beni anche della popolazione italiana. Molti italiani cercarono di arroccarsi in difesa delle buone ragioni e dei meriti coloniali.

Il 16 maggio 1949 venne sottoscritto in gran segreto il famigerato patto Bevin-Sforza tra italiani e britannici, al fine di dare una definitiva sistemazione alle ex colonia italiane dell’AOI. Questo patto prevedeva la suddivisione dell’Eritrea in tre distinte aree: la prima da inglobare nell’Etiopia, la seconda da annettere al Sudan e la terza con previsione di uno status speciale a Massaua ed Asmara. In cambio, i britannici avrebbero affidato all’Italia l’amministrazione fiduciaria (sotto egida ONU) della Somalia. L’accordo aveva natura prettamente spartitoria e obbediva a logiche neocoloniali. Fortunatamente, tale patto venne bocciato dall’ONU il 18 maggio successivo. L’Italia riuscì comunque a farsi affidare l’AFIS (Amministrazione Fiduciaria della Somalia), che durò dal 1950 al 1960. Fu l’unico caso di amministrazione fiduciaria affidata ad un ex potenza coloniale, sconfitta e che peraltro non era ancora membro dell’ONU! L’Italia infatti vi sarebbe entrata solo nel 1955. Così fino al 1960 proseguì la politica neocolonialista dell’Italia, e questo in piena Repubblica. E, a dire il vero, alcuni italiani continuarono, sotto l’egida delle Nazioni Unite, a comportarsi come quando in Africa orientale regnava il madamato. Molte ragazze (a volte bambine) somale furono messe incinta dagli italiani, e centinaia di questi figli meticci finirono nelle missioni cattoliche, senza affetti, per poi essere catapultati in seguito in Italia quando in Somalia scoppiarono i disordini, che avrebbero presto portato alla guerra civile e alla diaspora somala nel mondo.

Come ha scritto Antonio Maria Morone, il passaggio da coloni a profughi o rimpatriati si tradusse per la stragrande maggioranza degli italiani in una perdita significativa di status sociale. Conclusasi la vicenda coloniale, gli italiani d’Africa divennero poi, a loro volta, un fardello scomodo che ricordava un’epoca conclusa. Così alla rimozione delle colonie si aggiunse anche quella di questi italiani d’Africa, che vennero presto dimenticati e sui quali non esiste ancora oggi una coscienza o memoria nazionale delle loro esperienze. Ma in contrasto con molti italiani che dovettero lasciare le colonie, altri scelsero inspiegabilmente di restare, e non certo per ragioni economiche.

Nonostante gli sconvolgimenti di una guerra appena conclusa e alle incertezze dei propri destini di fronte alla complessità delle vicende internazionali, molti nostri connazionali si rifiutarono di ritornare nella madrepatria, e questo in un periodo in cui la British Military Administration (BMA) faceva di tutto per favorire il rimpatrio degli italiani (la cui presenza costituiva infatti un ostacolo ai sogni inglesi di spartizione delle ex colonie italiane).

E proprio in questo contesto, in questa zona grigia ricompresa tra decomposizione del vecchio mondo coloniale e nascita di un nuovo mondo decolonizzato si inseriscono le pagine di Tommaso Besozzi, forse il più grande giornalista italiano del dopoguerra e purtroppo oggi pressoché dimenticato. I suoi reportage pubblicati su “L’Europeo” negli anni Cinquanta furono raccolti nel volume “Il sogno del settimo viaggio” (1999). Nei primi due capitoli di questo libro straordinario si descrivono “i poveri bianchi dell’Eritrea”, cioè gli italiani che cercano di sopravvivere facendo i camionisti su e giù dall’altopiano etiopico, guidando mezzi sempre sull’orlo di un cedimento strutturale, o che cercano di sopravvivere nella desertificazione economica procurata dai britannici a Decamerè, la moderna Pompei eritrea, o che vivono “naufragati” in una Massaua spogliata e impoverita inventandosi cose incredibili per sbarcare il lunario.

Le attenzioni di Besozzi si rivolgono non tanto verso la minoranza degli Italiani arroccata a difendere disperatamente i propri pregressi privilegi coloniali (che perderanno definitivamente con l’avvento del Derg), bensì verso quel nucleo di connazionali (e parliamo di migliaia di concittadini) che con la forza della disperazione e totalmente abbandonati dalla madrepatria cercava di sopravvivere a quello sfacelo e alle incertezze di un presente incerto e violento. I personaggi descritti da Tommaso Besozzi sono emarginati e ribelli che raccontano le loro incredibili storie di confine, bollati indelebilmente dalla morale capitalista e produttivistica come “realtà umane (reiette) che rappresentano una sorta di spreco” e che si ostinano nelle loro avventure esistenziali inseguendo tornaconti economici al limite dell’insignificanza e che impararono a sopravvivere all’insicurezza, all’instabilità e all’imprevisto, uniche condizioni possibili in quel mondo border line.

L’allegoria di questa condizione umana è quella del camionista asmarino che col suo mezzo sempre al limite del collasso sogna il “settimo viaggio” su e giù dall’altopiano per poter ammortizzare i costi, e che quasi mai riesce a realizzare. Dotato di pala e piccone e con i soliti aiutanti indigeni nullafacenti è sempre pronto, in caso di frane stradali o del cedimento dei ponti, a costruirsi con le sue mani una possibile via di fuga in mezzo alla boscaglia, o staziona anche per settimane nel pieno del periodo delle grandi piogge vicino al suo mezzo sbalestrato in attesa che sopraggiunga un improbabile soccorso, con il carico di prodotti che ogni giorno deperisce. Un camionista che non vede la moglie da anni ma che ha una compagna in ogni villaggio e usa il suo italiano dialettale per comunicare con le autorità locali.

Non avendo alcuna convenienza a conformarsi e ad essere omologati, questi personaggi proseguono così ostinatamente ingigantendo il proprio individualismo e coltivando l’instabilità caratteriale. Questi antieroi diventano così il contraltare reale di un’irrealtà dilagante, gli ultimi testimoni di un’umanità impossibile e marginalizzata che riempiono di significato gli strati insignificanti del loro tempo. Ignorati dalla madrepatria, questi disperati dell’Africa Orientale sono gli avanzi dell’impero coloniale che vivono in una povertà spesso addirittura peggiore di quella indigena.

La resilienza di questi indomiti italiani a Massaua fu straordinaria. Prima sperarono nella farina di pesce, la polvere utilizzata per incrementare il potere nutritivo dei mangimi animali: il Mar Rosso era molto pescoso e di sole per l’essiccazione ce n’era anche troppo. Mancavano invece imbarcazioni adatte per pescare, e così si ingegnarono utilizzando il fasciame e le lamiere delle imbarcazioni sventrate dai bombardamenti, nonché adattando i motori degli autocarri, visto che le autorità inglesi vietarono l’importazione di macchinari di ogni genere e depredarono le officine meccaniche del Comando Marina e dei cantieri navali di Massaua. Non c’erano nemmeno reti da pesca e per realizzarle utilizzarono la juta dei sacchi. Le barche tuttavia non avevano la forza di pescare a strascico, le reti erano troppo fitte per essere buttate in acque profonde e i frantoi non macinavano bene. Enormi banchi di sardine stazionavano a poche centinaia di metri dalla riva ma occorreva aspettare che si spostassero nelle secche, e quando andava bene la pesca riusciva a portare a riva appena un decimo di quello che si sarebbe potuto raccogliere con mezzi idonei. Il prodotto era scadente e veniva venduto a prezzi stracciati. La concorrenza era pesante e alla fine dovettero mollare quest’attività e se ne inventarono un’altra.

Fu allora la volta dell’olio di fegato di pescecane. Per pescarli non occorrevano reti ma ami grandi come un dito e fili di acciaio per la parte terminale delle lenze. Si usavano le corde delle chitarre, finché un giorno un italiano fece incetta ad Alessandria di una partita di corde di pianoforte rotte e riuscì a importarle a Massaua di contrabbando. Finita anche questa risorse, gli afrikanders di Massaua utilizzarono le conchiglie per realizzare bottoni di madreperla; ritenteranno con le ostriche perlifere e commerceranno in ossi di seppia. Poi fu la volta delle tartarughe, della brillantina africana, del trepang (un grosso verme marino venduto nel Far East come afrodisiaco) e delle collanine (rekam) fatte con piccolissime conchiglie bianche.

Cosa teneva ancora gli italiani in quella città? Massaua non poteva certo dirsi bella, lo spazio era ristretto e il suo suq era un budello. C’erano ville fatte saltare con la dinamite e gli inglesi avevano smantellato ogni impianto o macchinario utile. Anche il grande ospedale militare fu demolito e i malati, bianchi e neri, stazionavano in quattro vecchie baracche. Il clima restava perfido, inclemente, ed erano svanite le possibilità di guadagno. Ma allora perché continuavano a rimanere lì? “Vogliamo aiutarli questi italiani rimasti aggrappati allo scoglio? – scrive Besozzi – Oppure decidiamoci a dichiararli pazzi; mandiamo una nave a Massaua; imbarchiamoli con la camicia di forza”.

Anche quando tornavano in patria, gli italiani non se la cavavano molto meglio. Nell’Italia del secondo dopoguerra, gli uomini e le donne provenienti dalle ex colonie erano percepiti come corpi estranei e addirittura a volte come elementi pericolosi, che l’organismo nazionale, a meno di esigenze superiori, aveva motivo e ragioni per rigettare; la madrepatria divenne così una terra straniera. Stesso destino fu riservato agli (ex) sudditi eritrei, libici, somali ed etiopici in Italia e ai “meticci” figli delle relazioni delle coppie miste. L’ombra lunga dell’ex impero coloniale italiano aleggia ancora oggi e influenza le (non) scelte italiane in tema di cittadinanza, che appaiono ancora imperniate sui confini “razziali” della nazione. Il radicamento dell’assunto “italiani? brava gente”, la negazione (anche davanti all’evidenza) della discriminazione razziale, il negazionismo dei crimini commessi durante l’era coloniale e una certa impostazione della storiografia sono tutti aspetti con cui dobbiamo confrontarci ancora oggi e che stanno purtroppo condizionando (negativamente) non solo il contesto sociale ma soprattutto la politica del nostro paese.

Per approfondimenti, si rinvia al volume di Alessandro Pellegatta, “Il Mar Rosso e Massaua”, Historica editrice, 2019

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore