Srebrenica e il Narodni Dom di Trieste. L’importanza della memoria

Raccontare ciò che si è visto, affinché nessuno possa dire “non lo sapevo”, perché la memoria non si perda. Questo sosteneva Primo Levi.

In questi giorni ricorrono gli anniversari di due eventi luttuosi che hanno segnato drammaticamente la storia del Novecento. Il 13 luglio 2020 ricorrerà il centenario dell’incendio avvenuto per mano fascista del Narodni Dom, l’edificio di Trieste simbolo della comunità slovena. Mentre, sempre in questi giorni, si ricorda anche il 25esimo anniversario degli eccidi di Srebrenica.

Il genocidio di Srebrenica poteva essere evitato. Ventimila civili bosgnacchi, che nel luglio 1995 imploravano protezione all’Onu dopo la caduta di Srebrenica – «safe area» solo sulla carta, e assediata ormai da anni – erano tenuti in scacco dai serbo-bosniaci. Dopo la caduta, furono migliaia i civili che cercarono riparo nel vicino compound dell’Onu, ma vennero cacciati dai caschi blu olandesi con la rassicurazione che “i serbi non gli avrebbero fatto del male”. Tutti dovettero abbandonare la base. E sapevano che andavano a morire. La comunità internazionale rimase a guardare, mentre la bandiera blu dell’Onu sventolava su Potocari e tutto attorno si compivano crudeli massacri.

Fu una grande, terribile mattanza senza fine che insanguinò le colline e i boschi attorno a Srebrenica, in particolare tra il 13 il 17 luglio 1995, mentre a migliaia cercavano la salvezza in lunghe marce della morte attraverso le foreste, per cercare di raggiungere il territorio controllato dal governo di Sarajevo. Partirono in 15mila e ne arrivarono vivi solo 5-6mila. Non furono risparmiati neppure donne, vecchi e bambini, in quella breve ma orribile «stagione della caccia». «Calmi, non abbiate paura -diceva il generale Mladic-, lasciate che donne e bambini salgano per primi sugli autobus, nessuno vi farà del male», mentre aveva già in tasca i piani della carneficina. Il 22 novembre 2017 il Tribunale internazionale penale dell’Aja, dopo aver udito oltre 500 testimoni ed esaminato oltre 10mila elementi di prova, ha condannato Mladic all’ergastolo per il contributo e la partecipazione a 4 iniziative criminali organizzate (Joint Criminal Enterprises) volte alla persecuzione, sterminio, omicidio, deportazione, trasferimento forzato e inumano di popolazioni, attacco alla popolazione civile e presa in ostaggio di personale ONU, prime fra tutte il massacro di Srebrenica, qualificato come genocidio. il Tribunale ha tuttavia assolto Mladic dall’accusa di genocidio per il complesso delle azioni criminali avvenute in Bosnia fra il 1991 e il 1995, in quanto non è stato provato che il genocidio fosse l’obiettivo di tali azioni.

La sera e la notte del 13 luglio 1920, la furia nazionalista e squadrista dette alle fiamme l’edificio del Narodni dom, ma si scagliò anche contro altre sedi di istituzioni, istituti bancari, abitazioni private di sloveni e slavi a Trieste. La squadra ebbe come comandante Francesco Giunta (1887-1971), squadrista e fascista, segretario del Partito nazionale fascista (PNF), governatore della Dalmazia, di cui la Jugoslavia, nel 1946, tramite la Commissione alleata, richiese invano l’estradizione all’Italia, accusandolo di crimini di guerra. Giunta ebbe a scrivere come “da Trieste, pulita con ferro e fiamme, ebbe inizio l’epopea fascista”.  Lo scrittore Boris Pahor, che ha ormai 107 anni e vive ancora davanti a un antico cimitero ebraico a Trieste, assistette all’incendio con la sorellina Evelina che allora aveva poco più di quattro anni. L’esperienza lo traumatizzò: ne scrisse nella novella “Il rogo nel porto”, che dà il titolo all’omonima silloge di prose brevi.

«Tutta Trieste stava a guardare l’alta casa bianca dove le fiamme divampavano a ogni finestra. Fiamme come lingue taglienti, come rosse bandiere (…) gli uomini neri intanto gridavano e ballavano come indiani che, legata al palo la vittima, le avessero acceso sotto il fuoco. Ballavano armati di accette e manganelli».

Restituire oggi il Narodni dom agli sloveni di Trieste non è un regalo, ma è un atto doveroso, a prescindere da quello che possano prevedere leggi che attendono da tempo la loro attuazione. È un atto di pacificazione storica che deve accomunare tutti. La  distruzione di questo edificio e le morti che ne seguirono, giusto un secolo fa, hanno segnato l’inizio del fascismo del confine orientale, e hanno comportato tragedie, conflitti e lutti che si sono prolungati fino alla fine della seconda guerra mondiale. Con l’atto della restituzione si realizza la pacificazione storica con la quale, questa volta per davvero, “se pol” (alla triestina) ricominciare un nuovo percorso, una nuova vita e mettere una pietra tombale su un passato che rappresenta la maledizione di questa città.

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore