Spedizioni italiane nel Mar Rosso

Il Mar Rosso, per la sua posizione geografica e per le sue caratteristiche fisiche e biologiche che lo differenziano da ogni altro mare del globo, già subito dopo il taglio di Suez (1869) cominciò ad essere oggetto di studi e ricerche da parte di spedizioni organizzate da vari paesi, tra cui ovviamente l’Italia, che con le sue truppe sbarcò a Massaua nel febbraio del 1885. Tra le prime osservazioni ricordiamo quelle idrologiche e fisico-biologiche effettuate nella zona del canale di Massaua dalla Regia nave Scilla della Marina italiana e interrotte dalla prima guerra italo-etiopica (che terminerà con la disfatta di Adua del 1° marzo 1896). Sempre la Marina italiana nel 1903, con la Regia nave Staffetta, compirà nuove ricerche talassografiche e biologiche.

La descrizione delle meraviglie della costa eritrea, di Massaua e dell’arcipelago delle isole Dahlak, fu l’incipit con cui Ferdinando Martini, il primo governatore civile della Colonia Eritrea, avviò il suo volume Nell’Affrica italiana (1896). Egli scrisse:

“[…] Chi vide tramontare il sole sul Mar Rosso non dimenticherà più, quando campasse cent’anni, tanta festa degli occhi, tanto bagliore di raggi, tanta vivezza di tinte. Un globo d’oro s’era da poco nascosto dietro un fulgido padiglione sanguigno, coronati di archi gialli, i quali digradano di tono in tono dall’arancio al canarino, si perdevano, sfumavano in luci opaline […] Ora noi, scorta per la prima volta e salutata co’ versi danteschi la Croce del Sud, navigammo tra vapori perlati, vicendevolmente ricordandoci e descrivendo gli sfolgorii di questi occasi meravigliosi”.

Rimpiango la pace e la solitudine ispirata delle isole Dahlak, le squadriglie di pesci volanti che sfrecciano davanti alla prua delle barche. Ho nostalgia di quel cabotage fascinoso, sospeso tra desiderio di orizzonti marini e la voglia di terraferma, tra nomadismo e sedentarietà. Tra le isole di questo infinito arcipelago verrebbe voglia di perdersi per sempre. Dimenticare tutto il superfluo, tutto l’ingombro e il rumore del nulla, entrando in una solitudine sognante dove cielo e mare si confondono ritrovando il blu e il verde delle origini. Abbandonare la propria pelle sbarcando dove capita ed immergersi nell’annegamento estatico.

Mi mancano quelle isole coralline, e mi manca la calma e il silenzio spezzato solo dal vociare degli stormi di uccelli e dalle onde che levigano la sabbia bianca, le lunghe passeggiate sulle spiagge deserte e i tiepidi bagni mattutini nelle prime luci del giorno con i gabbiani che gironzolano intorno alla tenda alla ricerca di cibo e le centinaia di paguri che si muovono lenti al tuo passaggio.

Nel 1952 le Dahlak furono inoltre oggetto di ricerche da parte della Spedizione Nazionale Subacquea, che partì il 28 dicembre dello stesso anno dal porto di Napoli sulla motonave Formica e che fece ritorno al medesimo porto il 26 giugno 1953. Di tale spedizione, diretta da Francesco Baschieri Salvadori, faceva parte anche Folco Quilici, regista del documentario sulla spedizione, e Gianni Roghi, collaboratore scientifico e capo ufficio stampa che pubblicherà per Garzanti il libro “Dahlak” (1954). In sei mesi vennero raccolti nei fondali delle Dahlak 4mila chilogrammi di pesci, di cui 400 sotto formalina o alcool o essiccati, 300 specie di molluschi e di echinodermi e 40 specie di celenterati (soprattutto madreporari e corallari), il tutto contenuto in 53 casse e vetreria diversa.

Oggi fa quasi orrore pensare alle cruente modalità con cui si condusse questa raccolta: vi fu inoltre scarsa attenzione alla conservazione dei reperti, e molti esemplari non sono oggi più univocamente identificabili. Il libro di Roghi, descrivendo le meraviglie di questo arcipelago incontaminato, rappresenta tuttavia una preziosa cronaca della spedizione e raccoglie, oltre alle usanze locali, l’incanto di questi luoghi. I resti di questa spedizione ormai dimenticata sono custoditi dal Museo Civico di Zoologia di Roma, e la collezione avrebbe bisogno di essere riordinata.

Uno dei capitoli più emozionanti del libro di Roghi s’intitola “La danza delle mante” e descrive con sorprendente freschezza tutta la straordinaria vitalità di queste acque. Dopo una giornata di pioggia improvvisa, in quel mare così grande e tranquillo accadde qualcosa di unico. Giunsero creature in volo, ma un volo attraverso l’acqua, sopra gli abissi marini. Le mante incinte si presentarono nella sala parto presso l’isolotto di Dur Ghella e iniziarono a partorire. Così scrive Roghi:

“[…] Quaranta e forse più mante, in una giostra ininterrotta e quasi a catena, salivano dal baratro in volo verticale con le ali e le corna tese, aprivano il mare e a braccia spalancate si rovesciavano, calavano ancora a testa in giù e là nel profondo, a venti o trenta metri, riprendevano quota come aeroplani per tornare in superficie […]. A un tratto frullò in superficie qualcosa […]: erano piccolissime mante in schiera, in fila per due, affarini di neppure un metro. Sbatacchiavano freneticamente le alucce e si dirigevano anch’esse in alto mare […]. È il parto delle mante!”.

Oggi abbiamo tutti una grande responsabilità. Oltre a quella di salvare Massaua dall’abbandono (questa città, uno dei simboli della globalizzazione del mondo antico, giace ancora derelitta tra le macerie della devastante guerra con l’Etiopia), dobbiamo pensare a forme di turismo responsabile per tutelare il prodigio di questi santuari eco marini dalla furia delle multinazionali del turismo e dalla cementificazione, che hanno già irreparabilmente cementificato gran parte delle coste egiziane e sudanesi. Anche la memoria può fare la sua parte, e soprattutto la lettura del citato libro di Gianni Roghi, che scomparve prematuramente nella sua amata Africa all’età di quarant’anni. Un bellissimo racconto che ci parla ancora del fascino di un paradiso tropicale che abbiamo il dovere di tramandare alle future generazioni.

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore