Mother Eritrea

Forse non esiste al mondo un paese come l’Eritrea che per decenni e, tuttora, è colpito dalle false informazioni dei media, pilotate ad arte per l’interesse del momento. La storia dell’Eritrea è lunga, complicata, tortuosa, dolorosa. Oggi chi critica questo paese spesso non sa nulla o quasi di questa storia. Per raccontare e comprendere tutte le tragedie e le sofferenze del Popolo eritreo forse non basta una vita intera.

Tutto iniziò con l’occupazione militare italiana, con quel tragicomico sbarco a Massaua del febbraio del 1885, appoggiato dai Britannici, cui seguirono i primi scandali, tra cui quello, ad esempio, legato alle figure di Cagnassi e di Livraghi: il primo era un avvocato faccendiere legato alla lobby massonica dei militari sabaudi che occuparono l’Eritrea, e il secondo il comandante dei Regi Carabinieri. Come ho scritto nel mio “Patria, colonie e affari” (Luglio editore, Trieste, 2020), a Massaua e in Eritrea fu coltivato il “brodo di coltura” immondo in cui cominciò la nostra avventura coloniale, il pantano di basse passioni, d’insani appetiti e di vigliacche vendette che era la Colonia Eritrea di quegli anni. Dove cultura dell’illegalità, affarismo e rapporti tra fratelli massoni spadroneggiavano nella totale incuranza della madrepatria.

Affarismo e massoneria andarono di pari passo nella Colonia Eritrea alla fine dell’Ottocento: le forze che si scontravano e si ricomponevano, come ha scritto Silvano Montaldo, “[…] non erano interessi individuali e disaggregati, ma una sorta di micro partiti notabiliari dai contorni sfumati e dalla doppia struttura, politica e affaristica, che si combattevano nelle questioni fondamentali della colonia, alla cui soluzione era legata la destinazione delle risorse finanziarie e la riuscita di iniziative commerciali”. A Massaua, cittadina portuale multietnica da secoli, avendo raccolto il testimone di Adulis, c’erano ricchi mercanti, e gli Italiani (che si orientavano a mala pena in quel melting pot) furono alquanto sbrigativi nell’incarcerare, uccidere e sequestrare beni e ricchezze a questi mercanti. E anche la commissione governativa d’inchiesta (in cui partecipava l’anticolonialista Ferdinando Martini) venne messa presto a tacere. E Martini divenne presto il nuovo governatore civile della Colonia Eritrea, sostenendo le “ragioni” della colonizzazione.

L’Eritrea venne lasciata a sé stessa, visto che le spese militari divoravano tutte le risorse. Baratieri, prima di essere sconfitto ad Adua, aveva disposto espropri selvaggi dei territori eritrei, sollevando la rivolta di Bahta Agos, che venne ovviamente soffocata nel sangue. Il madamato dilagava, non esistevano registri di stato civile per i meticci nati dalle relazioni tra uomini italiani e “madame” eritree, e al di là di qualche scuola “professionale” dei missionari non esistevano per gli Eritrei scuole degne del nome. Poi l’Eritrea ebbe sì uno sviluppo strepitoso, ma ciò avvenne in vista dell’invasione dell’Etiopia. Asmara divenne un paradiso ma per pochi, visto che vi regnava l’apertheid.

Dopo il crollo dell’AOI (Africa Orientale Italiana), l’Eritrea venne spogliata dai Britannici, che vendettero tutto il possibile e cercarono di smembrarla col famigerato patto segreto Bevin-Sforza del 1949, con cui l’Italia intendeva abbandonare l’Eritrea in cambio dell’assegnazione in mandato fiduciario della Somalia. Il patto fortunatamente venne respinto il 18 maggio di quell’anno dalle Nazioni Unite, ma l’Italia riuscì comunque a vedersi assegnata l’AFIS della Somalia…con risultati che furono insoddisfacenti. Nel secondo dopoguerra, l’Eritrea fu terreno di scontri e violenze da parte degli sciftà etiopi, che attentarono anche contro la comunità italiana. Gli italiani davano fastidio, se ne dovevano andare.

Nel 1952, secondo una dichiarazione di John Foster Dulles, Segretario di Stato USA, gli interessi strategici degli Stati Uniti nel bacino del Mar Rosso e la “pace nel mondo” rendevano necessario che l’Eritrea fosse annessa dall’alleato etiopico, che rivendicava la sua “porta sul mare” (Massaua). E così l’Eritrea venne prima “federata” all’Etiopia e poi “annessa” senza che la Comunità internazionale dicesse nulla. Il 2 dicembre 1950 l’Assemblea generale dell’ONU, adottando il piano per la federazione dell’Eritrea all’Etiopia, di fatto assecondò il disegno politico del Negus, risolvendo il problema dello sbocco al mare per l’Etiopia imperiale. L’ambasciatore italiano Alberto Tarchiani segnalò che il governo italiano si opponeva con forza all’annessione dell’Eritrea da parte dell’Etiopia, ma aggiunse che probabilmente l’indipendenza non avrebbe rappresentato il miglior sistema di protezione per gli Italiani residenti in Eritrea.

Subito dopo la federazione dell’Eritrea all’Etiopia gli sciftà cominciarono nuovamente a terrorizzare la popolazione civile eritrea (molte furono anche le vittime italiane) mentre Hailé Selassié non aveva alcuna intenzione di rispettare il modello federativo previsto dall’ONU: la nascente autonomia federale eritrea era infatti più fittizia che reale, e con la stessa ambizione colonialista delle truppe italiane gli Etiopi attraversarono il Mareb per sciogliere la federazione eritrea il 14 novembre 1962. Circa ventisette anni prima, e precisamente il 3 ottobre 1935, il generale Emilio De Bono aveva varcato tale fiume avviando la guerra italo – etiopica. Cominciava di lì a poco la lunga, dolorosa e sanguinosa lotta di liberazione eritrea, costata lutti e sofferenze indicibili.

Finita la colonizzazione imperiale etiopica, nel 1974 cominciò il regime militare di Menghistu spalleggiato dall’URSS, che non solo non abbandonò il rigido centralismo etiopico di marca imperiale ma rafforzò ulteriormente la repressione contro gli Eritrei, che subirono così la terza ondata di violenze coloniali. Ancora una volta gli italiani, e furono rare le eccezioni, si dimenticarono degli Eritrei, che con sacrifici inauditi e senza appoggi internazionali ebbero la forza di riconquistare con le armi la loro libertà. Vennero dimenticati dalla madrepatria anche i pochi Italiani che rimasero in Eritrea, spogliati dagli espropri di Menghistu.

Per decenni la guerra d’Eritrea resterà una guerra terribile e dimenticata, e nemmeno la sinistra italiana sembrò decidersi sulla strada da intraprendere, appoggiando la rivoluzione del Derg e riconoscendo allo stesso tempo la legittimità della lotta di liberazione eritrea. Saranno ancora gli Usa a intervenire come mediatori nel Corno d’Africa, dopo la decisione di Mosca di abbandonare Menghistu, e cercheranno di far riaprire il porto di Massaua per soccorrere le popolazioni etiopiche e eritree colpite dalla carestia. Il 21 maggio 1991 Menghistu fuggirà nello Zimbabwe e gli Eritrei riconquisteranno Decamerè, mentre il successivo 24 maggio espugneranno Asmara. Dopo trent’anni di lotte, battendosi con coraggio e senza sostegni internazionali, il Popolo eritreo tornerà finalmente indipendente, stremato dalla guerra e sotto lo spettro delle carestie. La città di Massaua, pur liberata durante il Fenkil, rimase orrendamente oltraggiata dai bombardamenti dell’aviazione etiopica: le macerie di questa città-martire sono ancora lì dal 1990, e questo in una città che come Asmara meriterebbe di essere tutelata quale Patrimonio dell’Umanità.

E non era ancora finita. Nel 1998 l’Etiopia, governata dal TPLF (il partito che è rimasto al potere in Etiopia per decenni e che ha tenuto insieme un paese diviso da profondi conflitti etnici, che nel corso del 2020 sono esplosi nel Tigrai, agitando lo spauracchio del “nemico eritreo”) si “inventò” una nuova guerra invadendo la città di Badme, invasione che portò alla morte di circa 19mila soldati eritrei e ad un pesante esodo di civili, oltre che ad un disastroso contraccolpo economico. Il conflitto eritreo-etiope terminò nel 2000, con un negoziato che si concluse con l’Accordo di Algeri, e per mezzo del quale si affidò ad una commissione indipendente delle Nazioni Unite il compito di definire i confini tra le due nazioni.

L’EEBC (Eritrea-Ethiopia Boundary Commission) concluse le sue indagini ed il suo arbitrato nel 2002, stabilendo che la città di Badme dovesse appartenere all’Eritrea. Tuttavia, il governo etiope si è rifiutato per anni di rispettare il verdetto della Boundary Commission e quindi di ritirare il suo esercito sia dalla città di Badme che da altre aree del territorio eritreo. E questo fino alla firma del nuovo trattato di pace sotoscritto dal nuovo primo ministro etiope Abiy col Presidente eritreo del 2018.

Ci sono voluti inoltre dieci anni per abbattere anche il muro delle “ingiuste sanzioni” (così le chiamano gli Eritrei) comminate all’Eritrea in base alla risoluzione n.1907 adottata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU il 23 dicembre 2009. Fu Hillary Clinton, all’epoca Segretaria di Stato USA, unitamente al governo etiopico, a rivolgere a livello internazionale all’Eritrea le false accuse di appoggiare gli Al Shabaab in Somalia. Accusa mai provata né allora né oggi. Si disse che Asmara avesse persino inviato propri soldati in Somalia, di cui gli stessi Etiopi (che invece la Somalia la invasero veramente) non hanno mai trovato traccia. Quello che probabilmente non fu gradito fu il tentativo eritreo di mediare tra le varie realtà tribali somale.

L’Occidente, con questo embargo internazionale immotivato, ha cercato di colpire il cuore stesso dell’Eritrea, spingendo  i suoi giovani a migrare con le false promesse di benessere. Il 3 ottobre 2013 avvenne la strage di Lampedusa: trecentosessantotto eritrei affogarono col rovesciamento di un barcone, in una delle più grandi catastrofi del Mediterraneo che ha cambiato per sempre il nostro presente, ponendo drammaticamente al centro il tema delle migrazioni africane. Un tema che non vogliamo gestire e risolvere, e che a catena sta generando una scia mostruosa di lutti e di dolore.

Ancora oggi parlare dell’Eritrea significa scontrarsi contro i muri di gomma dei pregiudizi e delle notizie preconfezionate. Non sono ammesse voci fuori dal coro, bisognerebbe sempre ascoltare in silenzio le litanie dei poteri forti e la loro visione dei fatti. L’Eritrea resta un paese strategico, e fa ancora gola a molti. Anch’io, così come Daniel Wedi Korbaria l’ha fatto col suo bellissimo romanzo storico (“Mother Eritrea”, La Vela, 2019), ho cercato e cerco di parlare senza “partigianerie” della storia e del presente di questo bellissimo paese, l’Eritrea, pieno di problemi e di contraddizioni, ancora molto fragile e che ha bisogno di essere aiutato, ma che ostinatamente, testardamente, non vuole essere nuovamente soggiogato e colonizzato. Il suo “voler farcela da solo” è un pessimo esempio per le politiche neocoloniali francesi, inglesi, statunitensi, turche e cinesi in Africa.

Gli Italiani, che hanno abbandonato e tradito più volte il Popolo eritreo, possono ancora fare molto, soprattutto collaborando con gli Eritrei nella tutela, nella conoscenza e valorizzazione delle bellezze di questa terra aspra e affascinante. La mitica Terra di Punt, uno dei primi luoghi della globalizzazione del mondo antico, nacque proprio con Adulis, con la civiltà adulitana, e oggi questo paese ha davvero la possibilità di uscire dal cul de sac in cui la storia l’ha relegato per decenni. La memoria è tutto, e un popolo senza memoria è un popolo perso, senza futuro e senza radici. Già, la memoria…che dobbiamo sempre preservare…per noi Italiani e per gli Eritrei, per un avvenire di pace, di prosperità e di sviluppo.

(nell’immagine: edificio della Banca d’Italia a Massaua, foto dell’autore. Questo splendido palazzo è stato orrendamente mutilato dai bombardamenti dell’aviazione etiopica)

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore