Mario Sironi (*)

Pandora diede agli uomini il dono alto e terribile del creare. E, come scrive Nietzsche, gli uomini che creano sono duri. “A voi deve sembrare beatitudine, imprimere la mano sui millenni, come fossero cera […]. Solo le cose più nobili sono anche le più dure”. E molte delle opere di Sironi sono verità dure, drammatiche, senza spazi liberi né vie di fuga. Inchiodano queste masse architettoniche, queste figure umane che sembrano eterne, gravi. Queste periferie urbane in cui spaziano grigiori esistenziali e melanconie inconsolabili.

Nel 1913 Sironi aderisce al futurismo, di cui dà un’interpretazione volumetrica, metafisica. Si arruola volontario nella grande guerra. Nel 1919 si trasferisce a Milano, e la sua pittura si concentra sui paesaggi urbani, orientandosi verso forme potenti di ispirazione classica ma ispirate da una potente drammaticità moderna. La città comincia a perdersi nei suoi spazi, reali e allo stesso tempo allegorici e irreali, tra infiniti ammassi di metallo, nel cemento e nel vetro senza storia, nei labirinti esistenziali dove i più consumano dolorosamente l’infido ed espansivo dono dell’esistenza. Sironi dipinge periferie disadorne e spoglie, imponenti, nei cui spazi si confondono drammi e grandiosità, pessimismo e tenace volontà costruttiva, colori tenebrosi e forme solide. Sono città senza verde, segnate da un senso doloroso di eternità.

Sironi aderisce al fascismo, disegnando sarcastiche illustrazioni sul Popolo d’Italia, e nel 1922 è tra i fondatori del Novecento italiano. Il gruppo espone alla galleria Permanente nel 1923, e dopo alterne vicende organizza mostre in tutta Europa. Sironi condivide le forme di una “classicità moderna”. A partire dal 1929, attraversa una crisi di natura espressionistica. Sironi abbandona il segno preciso e concede maggiore fluidità al disegno e ai colori materici. Accanto ai paesaggi dipinge figure umane mitiche, primordiali. Negli anni Trenta Sironi abbandonerà il cavalletto per dedicarsi quasi esclusivamente alla pittura murale.

Nel 1943, col crollo del fascismo ritorna al cavalletto, influenzato dalla mostra di Carrà a Brera nel 1942. Ripensa alla pittura metafisica, e le sue opere riproducono manichini tra cumuli di macerie o città deserte. Questa opere danno tutto il senso dello sconforto, della desolazione, esprimendo la tragedia di una storia senza senso, quella di una Italia distrutta dal fascismo e dalla guerra civile. Sono anni terribili, e Sironi assiste al crollo di tutte le sue idee politiche legate al “fascismo sociale”. Di lui lo scultore Arturo Martini scrisse che “[…] credeva di esser fascista, invece era di animo bolscevico e quasi abissale”. Il 25 aprile 1945 rischia di essere fucilato.

Ci rimane questo suo ultimo quadro del 1961, un paesaggio urbano disorientato e sfatto, trovato sul cavalletto dell’artista dopo la sua morte. Rimane la meravigliosa sintesi e grandiosità dei suoi quadri, la testimonianza incancellabile di una grande artista, Mario Sironi, che fu fascista e futurista, ma che fu coperto d’insulti da futuristi e fascisti. Un uomo che è vissuto in bilico fra due mondi, che seppe rappresentare i duri drammi del suo tempo e che morì, solo, dopo il suicidio della figlia diciottenne, in una clinica milanese il 13 agosto 1961.

(*) In mostra fino al 27 marzo 2022 presso il Museo del Novecento di Milano

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore