Latitudine Trieste

Trieste, periferia dell’Impero. Porto degli Asburgo, fu uno straordinario laboratorio sociale e intellettuale. Vi sbarcò il 20 ottobre 1904 James Joyce con la compagna Nora Barnacle, che aveva incontrato il famoso 16 giugno (Bloomsday) di quello stesso anno. Il cauto borghese Italo Svevo, con tanto di giaculatoria, ricorda (con date errate) l’incontro con lo scrittore irlandese, che sarebbe divenuto il suo maestro di inglese e che, grazie al suo intervento verso alcuni critici letterari francesi, lo avrebbe reso celebre solo tre anni prima della morte. Luogo di melting pot, la città non ebbe mai uno spirito comunitario, anche se le comunità si influenzarono reciprocamente. Né l’assetto urbanistico rispondeva ai bisogni e alle esigenze strutturali di chi l’abitava. Trieste, a cui Maria Teresa aveva assegnato un futuro emporiale, necessitava di una lingua unitaria e di vie di comunicazione. Il triestino era una lingua “corrotta”, con inflessioni e parole venete, ma il veneto (per ragioni storiche e geografiche) non avrebbe mai potuto essere quella lingua “unitaria”. La città aveva resistito ad un tentativo di germanizzazione.

E poi, in quel crogiuolo di razze, non c’era solo il tedesco, il croato e le lingue slave ma anche l’jiddish della comunità ebraica, che a sua volta era stato corrotto da espressioni viennesi e da frasi idiomatiche italiane. I giovani cercavano di parlare italiano con un linguaggio troppo aulico e, in fondo, ridicolo. Analogamente, i ricchi commercianti greci tendevano a non dimenticare la lingua dei padri. Italo Svevo pensava in tedesco e scriveva in italiano, e fu per trent’anni uno scrittore “negletto”: la casta (e provinciale) comunità italiana irredentista si sentiva tradita da questo alto-borghese frequentatore dei Caffè (mentre Joyce preferiva le taverne e i postriboli), che aveva avuto la sfrontatezza di scrivere romanzi spinti e si trastullava nella psicanalisi, mentre Joyce preferiva cantare con voce da tenore, ubriaco, le vecchie canzoncine della Trieste operaia e d’osteria.

Molto denaro e molta mona, ma Joyce, pur guadagnando, era sempre a corto di grana. La compagna (divenuta solo molto più tardi moglie, in una sorta di risarcimento “postumo”) non amava cucinare, e pertanto tutte le sere la famigliola di Joyce cenava al ristorante. Nora Barnacle, peraltro, non lavava né rammendava, così era un continuo acquistare vestiti nuovi per la bisogna. Nel dopocena poi, Joyce frequentava le bettole del porto, della Città Vecchia e di San Giacomo, preferendo ubriacarsi in triestino. Nora Bernacle era la sua donna, e in quanto tale veniva rispettata. Le altre in fondo erano solo “femmine” da “frequentare”, e tra esse vi era anche una certa Amalia Popper, figlia dell’ebreo Leopoldo Popper che nell’Ulisse divenne Leopold Bloom. Ma Leopoldo era anche il nome del padrone dell’osteria sottocasa: e fu proprio lì che incominciò a scrivere l’Ulisse. Malgrado, pertanto, Joyce venisse stipendiato dalla Berlitz, i soldi non gli bastavano mai…

L’uomo dei gerundi, come lo chiamò Italo Svevo (per via dell’uso e dell’abuso dei gerundi nella lingua inglese) era sempre in bolletta: e spettava sempre al fratello Stannie, un tipo davvero robusto, tirarlo fuori dai tavoli quando cadeva ubriaco perso. In quella città godereccia e nevrotica, Joyce aveva trovato la sua seconda patria. Con la fine dell’impero Trieste divenne di una noia mortale. Venne il momento delle angosce per un mondo decrepito e in disfacimento, e per l’assenza di un nuovo mondo che tardava a sorgere. Irredentismo, violenze, incertezze storiche, frizioni tra le comunità che avevano convissuto sotto il cappello degli Asburgo. Ai gioiosi postriboli della “pubblica insicurezza” di Joyce subentreranno la negazione dell’eros in Franz Kafka e soprattutto in Bruno Schulz, che nei suoi disegni contrapporrà algide e frigide donne a uomini nani, perduti in un desiderio irrealizzabile. Alla gioiosa vita triestina seguiranno i colpevoli senza colpa, l’incapacità di riconoscere il prossimo, la sospensione della ragione, l’incompiutezza umana e, soprattutto, la vendetta della storia “sospesa”, che nascerà con la disintegrazione dell’altro. Le contraddizioni e gli scontri di una città eterogenea passeranno dal clima sottilmente folle alla follia barbara collettiva delle masse del primo dopoguerra, e alla successiva catastrofe della Risiera di San Sabba. Presto la storia ci avrebbe consegnato una società senza più radici e padri, una società di violenze e di schiavi. E tra italiani e slavi sarebbe presto subentrato il tempo dello scontro. Subentrò un nazionalismo esasperato e utopico che mandò in frantumi gli equilibri della Trieste mitteleuropea. Alle calde atmosfere delle bettole e dei postriboli triestini subentreranno i sinistri ronzii, le solitudini esistenziali e l’incapacità di riconoscere l’altro.

(nella foto: Trieste nel 1885)

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore