La morte del “compagno Duch”

Il dolore e l’orrore in Cambogia hanno spesso rivestito le forme dell’assurdo, della tragedia più profonda ed incomprensibile. Il Museo Tuol Sleng di Phnom Penh, noto come il carcere di sicurezza 21 (“S – 21”) rappresenta quanto di più raccapricciante possa esistere, ed evoca quanto di peggio possa albergare nelle menti umane. Con implacabile e freddo cinismo, che ricorda il sadismo dei criminali nazisti, i torturatori dell’S – 21 registravano meticolosamente le loro barbarie, e divennero essi stessi vittime delle proprie assurde carneficine. Stanze e stanze di fotografie delle vittime innocenti ricordano che questi orrori non vanno dimenticati, come non vanno dimenticati gli orrori di Auschwitz. E come ad Auschwitz, in Cambogia, trasformata in un enorme campo di concentramento, avvenne la deportazione di un intero popolo, la sua sottomissione ai lavori forzati di massa, la spoliazione di tutte le energie intellettuali. Qui gli avvenimenti superarono ogni immaginazione, qui gli esseri umani provarono – fino a morirne – le esperienze atroci della tortura.

La stessa identità culturale khmer rischiò di scomparire. L’irrealtà della morte di massa aleggia ancora in questo Paese, come nei tanti, troppi bollettini di Amnesty International, e ci rende consapevoli che il lasso di tempo che ci separa ormai dalla fine del regime dei khmer rossi regge il confronto con le epoche peggiori di una storia che è tanto “reale” quanto contraria alla ragione. Un’irrealtà che ha generato una moltitudine di mutilati, di sciancati, di storpi, che affollano la vita quotidiana di questo bellissimo Paese, che è diventato la discarica degli orrori dell’Occidente e che tenta faticosamente, coraggiosamente, di tornare alla “normalità”.

Anche i mirabili templi di Angkor, avvolti nella fitta vegetazione e resi leggendari dai resoconti di generazioni di viaggiatori, hanno conosciuto la follia dei khmer rossi. I sorrisi arcani dei “Bodhisattva” sembrano stagliarsi ancora sui campi minati, sulle atrocità, sui combattimenti, sulle deportazioni, sui fili spinati, sulle mutilazioni e le esecuzioni davanti alle fosse comuni, sui saccheggi e le razzie dei capolavori artistici (che, purtroppo, continuano…). E la Cambogia, per troppi anni dimenticata, vive ancora oggi questa sua tragica, drammatica divisione, fra le troppe tragedie (ancora impunite) e i mille incanti.

Quando i khmer rossi presero il potere, Angkor venne utilizzata come deposito di munizioni (visto che gli americani non avrebbero osato bombardarla), il terreno venne minato fino all’inverosimile, gli elefanti vennero completamente sterminati, così come le scimmie furono divorate dagli abitanti affamati. Tutto questo, come ha stigmatizzato Alberto Arbasino nel suo “Mekong”, nel distratto silenzio dell’Intellighenzia progressista dell’Occidente. Nella follia che condusse a teorizzare la trasformazione della Cambogia in una gigantesca colonia agricola maoista, vennero abolite le professioni, le scuole, le biblioteche, la moneta, e gli intellettuali: quelli che miracolosamente sono riusciti a salvarsi hanno vissuto la stessa esperienza descritta da Jean Amery nel suo famoso saggio “Intellettuale ad Auschwitz” o da Primo Levi nel suo “Se questo è un uomo”.

Se ad Auschwitz si è consumata l’apologia della “soluzione finale” del “problema ebraico”, l’S 21 supera qualsiasi allucinante concezione del “lager”, al confronto della quale i criminali nazisti più incalliti diventano dei semplici “bontemponi”. In questo ex – ginnasio francese degli anni ’50, dove si è studiato Pascal e anche l’Illuminismo, si sono consumati i più orrendi crimini contro l‘Umanità che la Storia contemporanea ricordi. Nella demenza della segnaletica (“Non gridare mentre ti torturiamo con la scossa elettrica!”), decine di fotografie appese sulle pareti spoglie ci ricordano le donne seviziate con i neonati in grembo, gli uomini deceduti con i segni raccapriccianti delle torture subite (dimenticavo: le fotografie venivano fatte “prima e dopo”, meticolosamente registrate, archiviate e protocollate…). Descrivere le atrocità commesse richiederebbe pagine e pagine, e si tratterebbe solo di “dettagliare”, caricando di inutile “morbosità”, una “materia” davvero tragica e assurda, visto che stiamo parlando di vite umane che, dopo essere state meticolosamente torturate (con strumenti peraltro poverissimi), venivano scrupolosamente segregate in celle di 0.8 X 2 metri ciascuna, o sdraiate a centinaia con le mani legate dietro la schiena nelle celle di massa di 8 X 6 metri, e che subivano 4 ispezioni corporali al giorno, la prima delle quali veniva regolarmente effettuate alle 4.30 del mattino. Tutte queste anonime “urla del silenzio” si spegnevano mentre l’Occidente, finita l’odiosa guerra in Vietnam, rimasticava annoiato la letteratura del rimorso sugli Olocausti precedenti (non curandosi di quello in corso in Cambogia…).

Tutte queste fotografie che vediamo appese ci ricordano, implacabilmente, sempre lo stesso concetto. Praticamente tutta la gente fotografata è stata seviziata ed uccisa. Sono immagini di gente qualunque: operai, contadini, ingegneri, tecnici, intellettuali (i primi ad essere eliminati erano quelli con gli occhiali), professori, insegnanti, studenti, ministri, diplomatici…Vennero imprigionati ed eliminati a bastonate non solo cambogiani, ma anche vietnamiti, laotiani, thailandesi, indiani, pakistani, inglesi, americani, canadesi, neozelandesi ed australiani. Le famiglie venivano segregate in massa: i bambini e i neonati non venivano nemmeno registrati, e subito trucidati. Un’intera nazione venne violentata: distrutta la memoria storica e culturale khmer ; spogliato e saccheggiato il Museo nazionale ; distrutto l’Archivio di Stato ; saccheggiata la stessa Pagoda d’Argento, simbolo della millenaria cultura cambogiana…

Oggi giunge la notizia della morte del macellaio dell’S-21, il “compagno Duch”. Ma tutta questa memoria non può morire o essere dimenticata. L’Umanità non deve più incorrere in tragedie del genere. Cerchiamo di mantenere vive queste testimonianze.

(nell’immagine: foto dell’S-21 tratta da “Il Corriere della Sera”)

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore