Karastan (Armenia, terra delle pietre)

Non ti vedrò mai più / miope cielo armeno / non guarderò più, gli occhi socchiusi / all’Ararat, tenda di nomadi, / non sfoglierò mai più / nella biblioteca di autori-vasai / il cavo libro della bella terra / il manuale degli uomini primi (Osip Mandel’stam)

Osip Emil’evic Mandel’stam nacque nato a Varsavia il 15 gennaio 1891, aveva origini ebraiche e morì carcerato in un gulag di Vladivostok il 27 dicembre 1938. Esponente di spicco dell’Acmeismo e considerato uno dei più grandi poeti del XX secolo Mandel’stam cadde vittima, come il poeta armeno Yeghishe Charents, delle violente purghe staliniane: benché se ne parlasse in ambienti ristretti fin dagli Anni Trenta e poi nei quotidiani negli Anni Quaranta e Cinquanta, fu solo con l’apparizione dell’opera di Aleksandr Solzenicyn “Arcipelago Gulag”, pubblicata in Occidente tra il 1972 e il 1978, che il mondo poté finalmente conoscere l’orrore associato a questa terribile parola che sintetizza efficacemente, anche linguisticamente, il terribile sistema concentrazionario dell’Unione Sovietica.

Mandel’stam partì alla volta dell’Armenia, accompagnato dalla moglie, nella primavera del 1930. Lo stesso anno scriverà il suo “Viaggio in Armenia”, opera che verrà duramente criticata dal regime societico. Permise questo viaggio l’amico e consigliere Nikolaj Bucharin; dal 1923 la poesia di Mandel’stam era stata messa al bando e nel 1924 alla morte di Lenin gli successe Stalin. I regimi dittatoriali non tollerano mai i poeti, non possono permettere forze libere e fuori controllo. Il “secolo belva” mostrava già ferocemente i suoi denti canini e la “macchina del fango” era all’opera. L’epoca sovietica emarginava Mandel’stam, lo espelleva come un corpo estraneo e le macchinazioni del regime stalinista lo accusarono ingiustamente di plagio nel 1929.

Bucharin sentiva sempre più pesante l’aria di fogna della cultura sovietizzata e consigliò all’amico Mandel’stam di allontanarsi dall’ambiente moscovita. Quando la segretaria di Bucharin chiese dove avrebbe desiderato recarsi Mandel’stam rispose senza esitazione: Armenia. Avrebbe dovuto descrivere gli elogi della giovane repubblica sovietica, ma per il poeta russo questo paese rappresentava una terra intrisa di epica classica dove trovare la forza e la passione per avviare una nuova stagione d’ispirazione poetica. Scrive nel sul “Viaggio in Armenia”: “[…] ovunque capitassi incontravo l’inflessibile volontà e la ferma mano del partito bolscevico. L’edificazione socialista sta diventando per l’Armenia una sorta di seconda natura […] Ma il mio occhio […] coglieva nel viaggio solo il lucifero brivido degli eventi casuali, l’ornamento vegetale della realtà.

Così Mandel’stam e la moglie Nadezda compiono insieme in Armenia l’ultimo viaggio della loro vita. Il poeta vuole ritrovare il dono della parola, dopo cinque anni di silenzio, proprio nel paese che considera la culla della civiltà europea: un paese che gli ricordava il Mediterraneo, Roma e l’Italia. Come ha scritto Serena Vitali, Mandel’stam in Armenia “…respirò a pieni polmoni la difficile aria storica di quella terra di confine, sempre assediata da vicini ostili e prepotenti, sovrastata dalle candide cime dell’Ararat”. Mandel’stam, dopo aver sostato a Sukhumi, in Abchasia, raggiunse così l’Armenia, la sua Terra Santa, nel maggio del 1930 restandoci fino al mese di ottobre.

Visitò il paese, le chiese, i cantieri, conobbe eminenti artisti, lesse la monografia di Strzygowski sull’architettura paleocristiana armena e studiò la lingua armena. E soprattutto si rifiutò di rispettare la norma – non scritta ma a tutti ben nota – della “letteratura di missione” che governò implacabilmente in tutta l’Unione Sovietica a partire dagli Anni Venti, e che imponeva ad ogni scrittore, celebre o meno celebre, di dedicarsi totalmente e unicamente ai luoghi e ai miti dell’edificazione socialista, vale a dire: canali artificiali, bacini idroelettrici, ferrovie, dighe, kolchoz, miniere pozzi di petrolio…

Mandel’stam aveva platealmente trasgredito alle regole del gioco: una forza incontrollabile lo spingeva verso prospettive antiche, remote, verso l’immagine vera di quel paese così bello e tormentato che Mandel’stam sentiva proprio. Non furono i gloriosi obiettivi della sovietizzazione del paese che egli narrò, non sono i modelli della cultura sovietica che perseguiva ma da esiliato qual era affrontò l’ultimo viaggio della sua esistenza inseguendo il mondo primordiale degli umili e le mille suggestioni della terra armena. Qui in Armenia Mandel’stam scrive: “[…] voglio conoscere il mio osso, la mia lava, il mio fondo sepolcrale […] Uscire verso l’Ararat, nella periferia che sputacchia, sbriciola, scatarra. Appoggiarmi con tutte le fibre dell’essere all’impossibilità di scelta, all’assenza di qualunque libertà”.

Quando si immagina l’Europa il pensiero corre quasi naturalmente a immagini note: le scogliere britanniche, le antiche colline toscane, i fiordi norvegesi, le montagne innevate dell’arco alpino, le isole greche nel loro bel mare, le cento e cento città che puntellano questo continente che porta l’affettuoso aggettivo di “vecchio”, e che ne caratterizzano l’identità. Più raramente gli europei occidentali guardano oltre, ricordando che il Vecchio Continente comprende in realtà anche un mondo spesso percepito come distante, caratterizzato dai campi di grano dell’Ucraina, dai laghi dei Paesi Baltici e dalle cupole a cipolla delle cattedrali di Mosca.

Ancora più raramente si rivolge il pensiero alle terre che la geografia ha scelto come confine con l’Asia, e che rappresentano il luogo di incontro e di scontro tra civiltà millenarie. Tra questi territori, di particolare incanto è intriso il Caucaso, la regione montuosa che la Storia dove si sono incontrati e scontrati tre imperi: il russo, il persiano e l’ottomano. Proprio qui sopravvive il popolo Armeno, un popolo la cui presenza in queste terre risale a molti secoli prima che Roma lo inquadrasse in provincia dell’Impero facendone precursore della cristianità in Oriente. Un popolo che “ci somiglia”: nel carattere, nella tradizione culturale, nella storia religiosa… gli Armeni sono più vicini a noi europei del Mediterraneo di quanto si creda. Un popolo che è sopravvissuto al genocidio e alle violenze della storia grazie all’attaccamento alla religione cristiana, alla sua lingua e alla passione per i libri. E in cui il grande poeta Mandel’stam ritrovò le chiave dell’umanesimo e della cultura mediterranea prima di essere annientato in un lager siberiano

(nell’immagine: la copertina del mio libro sull’Armenia)

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore