Kafka, la tana e i postumi del COVID 19

C’è un racconto di Franza Kafka che, profeticamente, rappresenta la situazione dell’umanità sotto l’impatto del COVID 19. Scritto nel 1923-24, a solo pochi mesi dalla morte del grande scrittore praghese, questo racconto è rimasto incompiuto, e non sappiamo se per volontà dell’autore o perché sono andati perduti i manoscritti. Esso narra le vicende di un essere ibrido, mezzo animale e mezzo umano, che scava una tana per difendersi dal mondo esterno. “Ho assestato la tana e pare riuscita bene. Dal di fuori, in verità, si vede soltanto un gran buco, che però in realtà non porta in nessun luogo”, questo è l’incipit della novella.

La tana” (in seguito definito come “il racconto”) è uno degli ultimi racconti (e il secondo per lunghezza, dopo la “Metamorfosi”) di Franz Kafka, scritto durante la sua permanenza a Berlino nel 1923, all’incirca sei mesi prima della morte. Fu pubblicato postumo per la prima volta nel 1931 da Max Brod, amico ed esecutore testamentario di Kafka, che ne aveva ricevuto il manoscritto da Dora Diamant, l’ultima compagna dello scrittore. In seguito apparve nella raccolta intitolata “Durante la costruzione della muraglia cinese”.

Proprio come per la “Metamorfosi”, “Indagini di un cane”, “Josephine la cantante” o “Il popolo dei topi”, anche “La tana” appartiene alle storie di animali, una tipologia utilizzata spesso da Kafka, e narra dei continui disperati sforzi intrapresi da un protagonista – per metà umano e per metà animale – di costruirsi un’abitazione perfetta, così da potersi proteggere efficacemente dai suoi nemici invisibili.

Kafka, che non si sentiva un “umano” (in quanto totalmente aggiogato dalla passione letteraria, che gli impediva di gestire gli affari borghesi e anche le relazioni sentimentali), dalla “Metamorfosi” in poi si era dilettato più volte in racconti che vedono come protagonisti esseri animali. Quando scrisse questo racconto inquietante era già gravemente malato.

Il racconto, che è narrato in prima persona, è costruito e si sviluppa intorno all’idea ossessiva di realizzare una complessa opera architettonica, un rifugio inattaccabile che potesse difendere il protagonista da potenziali nemici, visibili e invisibili, i quali però non danno mai prova di esistere veramente: la tana, creata in questa costante ricerca di perfezione, non produce però quella pace e tranquillità che il protagonista-costruttore s’attendeva di trovare ma, piuttosto, tutto ciò gli provoca continue e crescenti ansie, dubbi, inquietudini. Non c’è un momento di tranquillità, di serenità. Questo essere ibrido si danna costantemente, e nei suoi sogni appare sempre l’immagine di un “grugno bramoso che annusa continuamente” sulla tana.

I pensieri e le riflessioni del protagonista, che si sforza di restare razionale, vengono spesso interrotti da fasi, totalmente irrazionali, in cui egli si affanna in ristrutturazioni sconsiderate (costruendo gallerie che non portano da nessuna parte) e in cui divora compulsivamente tutte le scorte di cibo conservate nella tana. Di tanto in tanto esce per andar a caccia, ma anche per auto-convincersi che in realtà la sua tana non è affatto minacciata da pericoli esterni; ma tutti questi brevi itinerari al di fuori della tana non solo non gli giovano e non gli danno alcun sollievo, ma finiscono ogni volta per procurargli enormi problemi, ingenerandogli la paura incontrollabile di attirare con le sue fuoriuscite l’attenzione delle forze nemiche sull’ingresso mimetizzato della sua tana.

Un giorno incomincia a sentire un suono misterioso, che egli descrive come un sibilo molto fastidioso all’interno della tana, e cerca subito di trovare la fonte di questo insolito rumore mai udito prima; secondo la sua prima ipotesi, il rumore potrebbe essere causato da piccoli animali che vivono in tane contigue e/o parallele alla sua. Inizia quindi a scavare dei cunicoli esplorativi al fine di cercar l’origine del suono; ma il sibilo non si ferma, cosicché la ricerca del protagonista si fa sempre più ossessiva e frustrante.

Si lascia trasportare da queste gallerie, arriva in quelle più lontane, dove al suo arrivo “il silenzio si desta” e gli cala addosso. Passa di corsa, non sapendo nemmeno più cosa va cercando. Non c’è comunque mai pace, in quanto “il pericolo sta in agguato sopra il musco”.

La persistenza del sibilo lo fa giungere alla conclusione che vi dev’essere necessariamente un’unica ed ostile creatura vicina alla sua tana, e che questa non può che aver l’intenzione di ucciderlo. Diviso tra la paura e la rassegnazione, attende in posizione difensiva l’arrivo del nemico. Non c’è più tempo per una possibile intesa con l’animale nemico. Fino all’ultimo si illude di non essere stato udito dall’animale  che egli immagina incombere nei pressi della tana. La storia s’interrompe bruscamente all’interno d’una frase: “Tutto invece è rimasto immutato…”.

Molte sono state le interpretazioni, anche psicanalitiche, di questo racconto. È comunque un dato oggettivo che Kafka, quando lo scrisse, era perseguitato dalla malattia. Già dalla fine del 1923, la cagionevole salute dello scrittore inizia a peggiorare gravemente. A causa di problemi respiratori, Kafka trascorre un certo periodo presso il sanatorio di Wiener Wald, ma a seguito di complicazioni la laringe si era gonfiata così tanto da impedirgli di mangiare. Gli onorari dei medici e il costo della degenza diventano un’ossessione, che Kafka vede “incombere” sopra il suo letto. Febbre, tosse persistente e la citata grave infiammazione alla laringe ossessioneranno lo scrittore fino agli ultimi momenti della sua vita. In una lettera a Robert Klopstock recapitata ai primi di marzo del 1924, Kafka dirà:

“[…] Vado via di qui molto mal volentieri, ma non posso respingere del tutto l’idea del sanatorio, poiché siccome da settimane non sono uscito di casa a causa della febbre […] qualunque passeggiata, prima che io muova un passo, assume un aspetto di grossa impresa, certe volte il pensiero di seppellirmi nella vita pacifica di un sanatorio non mi riesce proprio del tutto sgradevole. D’altra parte, c’è la tosse che dura ore, mattina e sera, c’è la sputacchiera piena quasi ogni giorno”.

Il sanatorio era per Kafka quello che la tana rappresenta per l’essere ibrido del racconto. Un luogo che dovrebbe essere un rifugio ma che diventa una continua sofferenza, un luogo che si vorrebbe abbandonare presto ma che rappresenta una sorta di rifugio davanti alla propria debolezza, fisica e psichica. In questo stato di nevrosi e di preoccupazioni per la propria sorte, nasce questo racconto, che oggi dopo quasi un secolo si ripresenta per rappresentare le angosce del nostro mondo davanti alla pandemia planetaria. I rumori ossessionanti che si ascoltano nei corridoi della tana sarebbero allegoria dei rantoli del paziente ricoverato nel sanatorio. In effetti i termini tedeschi «Pfeifen» e «Zinchen» (corrispondenti all’italiano ‘fischio’ e ‘sibilo’), sono impiegati dallo scrittore tanto per descrivere il rumore letterario nella tana, che per rendere il rantolo prodotto dalla propria respirazione. Partendo da una valutazione sulla natura dell’essere che abita la tana, altri autori sostengono anche che lo stile del racconto sia un perfetto compromesso tra lo stato cosciente della creatura e le paure ancestrali tipiche di livelli onirici.

In questo racconto sembra di rivedere la stessa esperienza desolante e angosciante del “Processo”: il protagonista sembra ripetere gli stessi frustranti passi di Joseph K. dietro le quinte del suo tribunale, lì dove chi cerca di leggere le ragioni della propria condanna ed è destinato ad una perpetua sconfitta, e che porteranno alla sua morte. Kafka sapeva di essere condannato e di avere i giorni contati. Il racconto, comunque, a differenza di gran parte delle pagine letterarie di Kafka, non presenta complicazioni relative alla forma, mentre invece è proprio la sostanza del suo contenuto ad apparire maggiormente attrattiva e allo stesso tempo respingente: da questo punto di vista il racconto rimane forse il più enigmatico, inaccessibile e oscuro che Kafka abbia mai scritto. L’apparente semplicità del dettato crea un effetto stridente, che rende ancora più straniante e angosciante l’esperienza di lettura.

Gli spunti di riflessione del racconto sono molteplici, così come le possibili interpretazioni. La finzione letteraria kafkiana ci illumina magistralmente su quanto un uomo possa follemente isolarsi, anche a causa della sua psiche, e ricordandoci quanto i problemi psicologici non siano affatto da sottovalutare rispetto a quelli fisici. Un’esperienza negativa, un trauma, i postumi di una malattia possono segnarci infatti irrimediabilmente e trascinarci in una spirale negativa dalla quale risulta impossibile uscire se non con l’atto più estremo, che ad un certo punto sembra quasi inevitabile. Pur non essendoci stretti collegamenti, il racconto ricorda da vicino l’attuale situazione mentale degli “Hikikomori” giapponesi, che cercano di difendersi dai molti pericoli della vita reale, rifugiandosi in un eccesso di passioni (computer, videogiochi ecc.) che sfocia nel non spostarsi mai dalla propria camera e nel rifiutare qualsiasi forma di comunicazione, timorosi che la vita al di fuori della loro tana sia sempre in agguato contro di loro e attenti alla loro esistenza.

Anche ognuno di noi, in questo momento kafkiano che stiamo attraversando insieme ad altri milioni di esseri umani, ha costruito minuziosamente e custodisce gelosamente la sua tana: quanto più possibile accogliente, ma soprattutto protetta, sicura, lontana dai pericoli del mondo. Abbiamo rinunciato ai nostri diritti individuali e sacrificato i nostri desideri, e ci siamo detti che sarebbe presto tutto finito, e che in poco tempo saremmo tornati a respirare la libertà. All’inizio, come animali chiusi in gabbia, abbiamo resistito solo aggrappandoci alla speranza di tornare in poco tempo al mondo di prima, senza le restrizioni del lockdown. Ed ora che è stata declinata la tanto agognata “apertura” e il lockdown comincia ad allargare le sue maglie, stiamo ritornando spaesati alla tana, esattamente come il protagonista del racconto di Kafka, spaventati di essere nuovamente minacciati dal mondo.

Il mondo esterno non è più così desiderabile. Fuori dalle nostre tane, tutto è cambiato, e ci attendono minacce sconosciute e pericoli ignoti. Così, l’irrefrenabile voglia di uscire dalla tana viene facilmente addomesticata. E accettiamo passivamente che il nostro desiderio di libertà si affievolisca sempre più. Siamo diventati gli uomini-talpa del racconto di Kafka, imprigionati nelle nostre paure alimentate ad arte dai notiziari e dai media, che fanno a loro volta crescere il bisogno di sicurezza in un’escalation senza fine che rischia di portare tutta l’Umanità sotto la dittatura globale della paranoia. Spetta ad ognuno di noi combattere per evitare che la tana diventi la nostra prigione. E come disse Erich Fromm, il nostro obiettivo comune non è perseguire la sicurezza globale, bensì vivere in libertà tollerando l’insicurezza.

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore