Italiani, brava gente?

Ancora oggi l’immaginario degli italiani è intriso di luoghi comuni e falsi miti sul ruolo “civilizzatore” dell’Italia in Africa, che rappresentò l’alibi per la conquista e la colonizzazione. Un paese povero e sprovvisto di capitali, l’Italia, avanzò in Africa dal 1885, dilapidando ingenti risorse. Lo sforzo bellico fu immane, e molto poco rimase per l’opera “civilizzatrice”, che prese un forte impulso solo dopo la nascita dell’impero e dell’AOI. Questa lunga storia non va né esaltata né demonizzata, ma casomai studiata. In essa potremo trovare molte risposte per la soluzione dei temi politici e di cittadinanza che impattano ancora sul nostro presente.

Abbiamo avuto sicuramente dei meriti, ma anche grossi demeriti. Oggi, tra i tanti, voglio ricordare un episodio che, unitamente alle violenze di Baratieri in Eritrea, allo scandalo Cagnassi-Livraghi a Massaua, alle violenze inaudite dell’occupazione militare italiana della Libia e all’uso dei gas vietati dalle convenzioni internazionali, segna ancora tragicamente la nostra storia coloniale. Si tratta dell’eccidio del monastero monofisita di Debra Libanos (21 maggio 1937). Protagonista di questa strage efferata è ancora lui, Rodolfo Graziani. Dopo aver partecipato alla guerra del 1915-18, fu a lungo in  Libia dove condusse la campagna per la riconquista della Tripolitania e della Cirenaica, stroncando con inaudita violenza i Senussi e deportando nei lager la popolazione della Cirenaica (e che gli valsero l’appellativo di “macellaio dei Fezzan”). Generale di corpo d’armata dal 1932, nel 1935 Graziani fu nominato governatore della Somalia, dove creò il lager di Danane; quale comandante designato d’armata, nel conflitto italo-etiopico comandò vittoriosamente le forze del fronte sud, utilizzando impunemente nei bombardamenti aerei i gas che erano vietati dalle convenzioni internazionali. Senza questi gas l’Italia avrebbe rischiato di ripetere la disfatta di Adua del 1896, vista la predominanza della fanteria etiopica. Guadagnato il grado di maresciallo d’Italia e il titolo di marchese di Neghelli, dal giugno 1936 al novembre 1937 Graziani fu nominato viceré d’Etiopia, dopo Badoglio, imprimendo un carattere prettamente dispotico al suo governo. Nel 1939 divenne capo di Stato Maggiore dell’esercito; allo scoppio delle ostilità contro l’Inghilterra assunse il comando delle operazioni nell’Africa settentrionale.

Anche con gli etiopici Graziani usò, come in Libia, il pugno di ferro. Non riconoscendo ai suoi avversari il diritto di battersi in difesa della loro patria, fece impiccare ras Destà e fucilare i fratelli Cassa. La stessa sorte toccò all’abuna Petros che cadde ucciso mentre benediceva con la croce copta gli otto carabinieri del plotone di esecuzione. Tanta crudeltà non poteva che ingenerare sdegno, rancori e desideri di vendetta. Il 19 febbraio 1937, mentre Graziani assisteva a una cerimonia all’interno del recinto del “Piccolo Ghebì” ad Addis Abeba, due eritrei, Abraham Debotch e Mogus Asghedom, lanciarono sul gruppo delle autorità italiane alcune bombe che causarono la morte di sette persone e il ferimento di altre cinquanta, tra le quali il Graziani, il cui corpo recava i segni di 350 schegge. Dall’ospedale, dove fu prontamente ricoverato dopo l’attentato, egli ordinò di mettere in stato d’assedio la città lasciando al federale fascista Guido Cortese il compito di organizzare la rappresaglia nella capitale etiopica, che fu selvaggia e indiscriminata.

Guido Cortese, che era un fascista della prima ora, mantenne la carica di segretario del Partito fascista di Asmara fino al luglio del 1930. Rientrato in Italia, essendo specializzato nell’indottrinamento dei giovani divenne prima segretario generale dell’Ente nazionale per la mutualità scolastica e nel 1931 il segretario generale dell’Istituto coloniale fascista. Astro nascente della costellazione mussoliniana, nel giugno del 1936 (e a soli trentatré anni di età) divenne segretario generale del Partito fascista ad Addis Abeba, e il 19 febbraio 1937 condusse personalmente la strage della capitale etiopica conseguente all’attentato a Graziani. Fu visto su una macchina scoperta col volto insanguinato urlare con tutta la voce che aveva in corpo che gli etiopi avevano tentato di uccidere il viceré, ordinando a tutti gli italiani presenti di uccidere a vista più etiopi possibili. Come ulteriore ritorsione, Graziani uccise anche tutti i monaci e i diaconi del monastero dei Debra Libanos.

E qui notiamo un altro aspetto premeditato, inquietante. Per realizzare i loro obiettivi, i fascisti coloniali furono particolarmente abili nell’utilizzare al meglio anche la componente etnico-religiosa. Così come Graziani usò la divisione di fanteria “Libia”, costituita esclusivamente da soldati di fede musulmana (in prevalenza libici) e perciò nemici implacabili degli etiopici di religione cristiana, come uno strumento per seminare panico e orrore in tutta l’Etiopia, anche per la strage di Debra Libanos (uno dei principali monasteri abissini fondato nel 1284) fu utilizzato il XLV Battaglione Coloniale. In esso erano presenti anche ascari eritrei di religione islamica che avevano operato sul fronte libico.

Sulle presunte responsabilità del clero di Debra Libanos indagarono i Carabinieri reali, rilevando il “sicuro malanimo” dei religiosi verso l’occupazione italiana e una loro “probabile” correità nell’attentato. Il colonnello Azolino Hazon, comandante dei carabinieri ai AO, in una relazione a Graziani escluse comunque di doversi procedere in via sommaria. Ma Graziani, dal letto di ospedale, diede altre disposizioni al generale Pietro Maletti, che a sua volta “propose” a Graziani di “sciogliere il convento”.

Nel maggio 1937, senza attendere l’esito delle inchieste, Graziani dà così l’ordine di massacrare tutto il clero del monastero di Debra Libanos. Ed è proprio Pietro Maletti ad eseguire l’ordine e fa togliere la vita a circa duemila persone, la metà delle quali erano preti, monaci e diaconi. Gli abitanti dei villaggi vicini sopravvissuti alla carneficina vennero inoltre deportati nel lager somalo di Danane, onde evitare che rimanesse la memoria degli eccidi. Nel giugno del 1938, Maletti ottenne la promozione al grado di generale di divisione per “meriti eccezionali”.

Sfruttando subdolamente l’imminente ricorrenza del 18 maggio, giorno in cui si tenevano da secoli i festeggiamenti dedicati a Tecla Haimanot, fondatore del monastero, il 16 maggio Maletti mosse il XLV Battaglione Coloniale e la mattina del 18 maggio venne dato l’ordine di accerchiamento del convento. Non era la prima volta che gli ascari eritrei arrivavano al convento: in passato avevano baciato le croci d’argento che i monaci porgevano. Ma quel giorno era tutto diverso: gli ascari portavano quasi tutti il turbante, erano musulmani. E allora i monaci ricordarono le scorrerie di Gran il Mancino, il ras di Harar che mise a ferro e a fuoco l’Etiopia cristiana e che fu sconfitto solo grazie all’intervento dei portoghesi.

Il giorno 20 maggio Maletti ordinò il rastrellamento del convento. Una parte dei monaci vennero radunati vicino agli autocarri giunti con la Seconda Brigata (anch’essa di componente islamica). Alle ore 13 del 21 maggio, 320 tra monaci e laici vennero divisi in piccoli gruppi e caricati su autocarri con il telone ben chiuso. Li accompagnarono reparti interamente musulmani del XLV Battaglione Coloniale, che avranno l’ordine di fucilarli e allinearli in fosse comuni scoperte. In un primo momento, vennero risparmiati i diaconi, ma il giorno 24 maggio un ulteriore telegramma di Graziani ordinò anche la loro esecuzione. Si chiude così una delle pagine più orribili del colonialismo italiano in Africa.

La storiografia ufficiale ha a lungo ignorato i fatti di Debra Libanos e i massacri di Addis Abeba. Oggi è tornato il momento di conoscere e di ricordare. Rimangono nelle vie cittadine del nostro paese molti nomi di personaggi che, come Pietro Maletti, commisero atrocità che la memoria non potrà mai dimenticare. E soprattutto ad Affile resta il monumento commemorativo a Rodolfo Graziani, meta tuttora di un assiduo pellegrinaggio di nostalgici che continua a rappresentare un affronto alla democrazia ed è stato edificato coi soldi dei contribuenti italiani. La collocazione del monumento a Graziani, in uno spazio pubblico molto frequentato, contribuisce a rendere concreto e sempre attuale il pericolo che la rievocazione costante di Graziani, celebrato quale rappresentante della ideologia fascista, possa fare riemergere valori antidemocratici propri del regime mussoliniano.

(nella foto: Graziani poco prima dell’attentato del 19 febbraio 1937 ad Addis Abeba)

 

 

 

 

 

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore