Il Tigrai e il monastero di Debre Damo (Etiopia)

Il paesaggio del Tigrai è vario e ricchissimo, ancora più suggestivo se illuminato dai lampi dei brevi ma violenti temporali estivi, in una continua successione di istanti reali ma allo stesso tempo immaginari. Tra queste montagne il paesaggio si inabissa nelle gole e nei dirupi, stemperandosi in una tela fitta di colori ora accesi ora tenui. Sembra un mondo primigenio, una semplice solitudine popolata da pietre e da rocce, ma nel Tigrai i simboli e le suggestioni della natura raccontano la storia infinita del vivere e del credo, della passione di un popolo intero che si arrampica per mantenere fede alle proprie radici. In questa terra ci si domanda come abbiano potuto vivere gli uomini, che passano e sembrano non lasciare tracce. Sono umili contadini e pastori, che conoscono queste assolate solitudini e gli strapiombi ascoltando il vento.

Il Tigrai è un’esperienza unica proprio perché il suo fascino risiede nell’evocazione e nelle sue atmosfere pensili costituite dagli “interminati spazi” di leopardiana memoria. Appollaiato sopra qualche cengia o su qualche crinale roccioso mi sono fermato spesso a guardare l’orizzonte, questi spazi di natura intatta e le forme del tempo perduto, penetrato dalla presenza dolente di una vita che ripete le sue domande e i suoi lamenti fuori dalle contingenze della storia. Stare in silenzio era l’unica soluzione possibile per conoscere questo suggestivo territorio, e per capire il profilo di monaci abbarbicati alle loro chiese rupestri, l’istintivo legame con la vita e con la fede di chi come loro si affaccia da secoli sui baratri rocciosi nutrendosi dell’equilibrio delle luci, delle ombre, dei colori e dei significati.

Centoventi circa sono le chiese abbarbicate ai picchi montani del Tigrai. Alcune sono visitabili solo dagli uomini, mentre l’ingresso è vietato alle donne e a tutti gli animali di sesso femminile. Ogni monastero, dalla pianta circolare, presenta al suo interno ricchi affreschi colorati, coperti da spessi tendoni scuri, e molti di questi raffigurano personaggi dall’aspetto inquietante. Divoratori di esseri umani e santi convivono sulla stessa parete a far bella mostra di sé. In ogni chiesa, celata alla vista di tutti tranne che dei preti, si trova – secondo la tradizione etiope – una copia dell’Arca dell’Alleanza, la cui versione originale venne sottratta da Gerusalemme e, secondo la leggenda, portata in Etiopia e conservata nella chiesa di Santa Maria di Sion ad Aksum.

Il luogo più importante e suggestivo del Tigrai è indubbiamente il monastero di Debre Damo. Fu padre Francisco Alvarez, cappellano dell’ambasciata del Portogallo nel 1520, che per primo descrisse questi luoghi e le immani devastazioni prodotte da Gran il Mancino in Etiopia tra il 1527 e il 1543. Innanzi tutto, i suoi diari ci parlano dell’architettura e degli edifici che egli visitò, in particolare dei monasteri etiopi, che – scrive Alvarez – “erano tutti situati sulle rupi più grandi e più alte”. Quelli che descrive sono i complessi monastici realizzati sulla sommità delle ambas, le montagne piatte che segnano lo straordinario panorama del Tigrai e sono delimitate da ogni lato da rupi ripidissime e circondate da fertili valli coltivate. Sebbene fosse molto difficile accedervi, molti di questi monasteri furono espugnati dagli islamici. Soltanto il monastero di Debre Damo resistette e rimase inviolato, tramandando fino ai giorni nostri le sue splendide vestigia, esempio unico di architettura di stile aksumita.

L’imperatore Lebna Dengel (1508-1540) tentò di fuggire dal suo rifugio sulle montagne del Tigrai, ma non poteva fronteggiare le armi da fuoco degli islamici. L’unica cosa che poteva fare era arroccarsi a Debre Damo e mantenere le campagne circostanti. Nel 1535 mandò Bermundez, un portoghese che era rimasto in Etiopia quando nel 1526 la missione di De Lima era tornata in Portogallo, a cercare aiuto presso il re del Portogallo stesso, ma Bermundez sarebbe morto prima che i quattrocento moschettieri portoghesi guidati da Cristoforo da Gama arrivassero a Massaua nel 1541 per aiutare il re etiope assediato a Debre Damo.

Dopo molte battaglie combattute insieme agli Etiopi, i portoghesi riuscirono a sconfiggere Gran il Mancino nel 1543, ma il prezzo da pagare fu altissimo: trecento dei quattrocento soldati portoghesi morirono per la salvezza della monarchia etiope cristiana, e il nuovo imperatore Galawdewos aveva perso molte delle sue province. Senza questo aiuto dei portoghesi probabilmente l’Etiopia oggi non sarebbe più un paese cristiano, e gran parte del suo inestimabile patrimonio artistico, architettonico e culturale sarebbe andato irrimediabilmente perduto. Come scrive Peter Harrison nel suo “Fortezze di Dio”, durante il conflitto il monastero di Debra Damo svolse un ruolo fondamentale, in quanto costituì un rifugio sicuro per l’imperatore Lebna Dengel e la sua famiglia, e fu utilizzato come arsenale.

Nei secoli successivi l’inaccessibilità del monastero permise altri utilizzi: fu infatti impiegato anche come prigione reale. Derek Matthews nel suo “The Restoration of the Monastery of Debra Damo” (1948) ha disegnato la pianta del monastero e approfondito le caratteristiche architettoniche dell’edificio, che mostra un superbo incastro di legni e pietre.

Il monastero di Debra Damo si ritiene risalga al periodo aksumita e al regno di Gabra Maskal (VI secolo), e vanta probabilmente una delle chiese più antiche di tutta l’Etiopia (IX secolo). Secondo la tradizione locale il monastero fu fondato da Abuna Aregawi, uno dei Nove Santi leggendari dell’Etiopia, con l’aiuto di un serpente divino. Ancora oggi il santo è raffigurato a cavallo del serpente. Il monastero di Debre Damo oggi rimane isolato come lo era secoli fa, e immutata è la suggestione che riserva la vista delle ripide rupi che lo circondano.

Ci incamminiamo lungo un ripido sentiero che ci porta proprio sotto la parete. Non faccio in tempo a interrogarmi su come sia possibile arrampicarsi e subito un monaco mi butta dall’alto un grosso canapo saponoso, che è stato imbracciato da migliaia di mani. Un tempo i monaci issavano i fedeli con una cesta, ma oggi oltre al canapo c’è solo una specie di sicura fatta da un’ulteriore corda di pelle di capra che viene legata alla vita del climber, nient’altro.

Sono solo una ventina di metri da scalare, ma occorrono nervi salvi e braccia robuste per salire; la parete inoltre è molto liscia e ha scarsi appigli. Con la sola forza delle braccia mi arrampico. Finalmente arrivo a destinazione, e per lo sforzo sento male alle braccia. Ho anche il fiatone, ma il monaco con la sua grossa collana al collo mi dà subito la mano, stringendo la mia con un bel sorriso (vorrà ovviamente una mancia). Inizia la visita del luogo sacro: i monaci stanno cantando e pregando dentro la chiesa, per non disturbare faccio una ricognizione delle mura esterne, dove sono ancora visibili tracce d’intonaco.

La chiesa ha pianta rettangolare che misura 20×9 metri: la tecnica impiegata per realizzarla, che risale all’antica tradizione aksumita, prevede l’utilizzo di grosse tavole poste in senso longitudinale e trasversale, per rendere stabile il muro costruito con pietre rozzamente squadrate e mescolate a malta di terra, in strati fino a 40 centimetri separati da assi di legno con uno spessore massimo di 15 centimetri. Ecco che riconosco immediatamente la caratteristica peculiare dell’architettura aksumita, quella cioè di rafforzare la muratura attraverso un’intelaiatura lignea composta da travi longitudinali sulle quali vengono incastrati travicelli trasversali. Le testate circolari di questi ultimi, sporgenti dalla superficie del muro, vengono chiamate “teste di scimmia” (re’esa hebay). Una parete di legno separa la navata dal santuario di tre stanze, dove sono sepolti Lebna Dengel e suo figlio Galawdewos. Il tetto è piatto e fatto di terra pressata sopra un soffitto ligneo. I gradini, scavati nella roccia all’epoca della costruzione del monastero e della chiesa, sono stati rimossi. Qui vivono ancora un’ottantina di monaci totalmente autosufficienti; sulla cima dell’amba ci sono delle bellissime cisterne per l’acqua piovana, e le mucche pascolano beate (ma come hanno fatto ad arrivare fin quassù?).

Sempre qui a Debre Damo, il più antico monastero etiopico del Tigrai costruito sopra un’amba, nel 1940 fu rinvenuto un tesoro di centoquattro monete di Kushan, un regno dell’India nordoccidentale che durò dalla seconda metà del I alla seconda metà del III secolo. I sovrani del Kushan regnarono sulla mitica Battriana, ai confini degli attuali India, Afghanistan e Pakistan. E questo dimostra gli antichissimi rapporti tra Roma, Bisanzio, Aksum e l’India, che si svolgevano principalmente proprio attraverso il porto di Adulis, la principale stazione marittima dello jus gentium posta nel Mar Rosso.

L’isolamento dei monaci di Debre Damo non finisce nemmeno dopo la morte: vengono infatti inumati qui, in un tratto della falesia che scende a picco sul versante opposto rispetto alla chiesa, e le bare sono impilate l’una sull’altra in stretti pertugi, con un ingresso che in seguito viene murato. Dall’alto di questo luogo sacro la vista è meravigliosa e spazia su tutto il Tigrai, fino al territorio eritreo. Nel magico isolamento di questo monastero si respira ancora la storia antica di questo territorio, che resiste nonostante tutto all’inclemenza degli anni, solida come questi fabbricati di legno e pietra realizzati secondo la tradizione aksumita

Per approfondire la conoscenza si consiglia la lettura del volume di Alessandro Pellegatta, “La terra di Punt. Viaggio nell’Etiopia storica”, Besa editrice, 2015

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore