Il giardino luminoso del re angelo (l’Afghanistan oltre le guerre)

Timur (Tamerlano), da perfetto nomade, risiedeva raramente all’interno di edifici, e la sua corte alloggiava nelle tende in giardini e frutteti chiamati chahar bagh (giardini divisi in quattro parti). E anche Babur, il fondatore della dinastia moghul, non amava particolarmente l’India. Preferiva infatti le montagne dell’Asia centrale, e si avviliva nel vedere la mancanza di acqua corrente nei giardini e nelle case indiane. Promosse pertanto l’allestimento nella città indiana di Agra (sede del famoso Taj Mahal) dei Giardini degli Otto Paradisi. Ma dove Babur amava rifugiarsi, tra una campagna militare e l’altra, era proprio a Kabul in uno splendido giardino, tra alberi di albicocchi fioriti, piante profumate di rosa e il canto degli uccelli.

Peter Levi (1931-2000), un giovane gesuita che fu docente ad Oxford, oltre che poeta e scrittore di viaggio, e che esplorò l’Afghanistan insieme a Bruce Chatwin nel 1969, descrisse nel suo splendido volume (oggi introvabile) intitolato Il giardino luminoso del re angelo proprio questo giardino di Babur a Kabul, dove egli è sepolto nel suo mausoleo di marmo grigio. Secondo un’iscrizione che domina l’ingresso principale di tale mausoleo, Babur è “il re angelo prediletto da dio”, mentre il “giardino luminoso” è proprio questo giardino nel cui contesto è posizionato il mausoleo. Come ha scritto Tiziano Terzani, il libro di Levi (elegante, ricco ed ironico) assume oggi un particolare valore di fronte alla sistematica distruzione del patrimonio storico-culturale afghano ad opere delle continue guerre che da decenni sconvolgono questo paese.

Nelle pagine di Levi ritroviamo il gusto dell’imperatore moghul che «risentiva in modo particolare dell’esperienza del deserto; la devozione con cui nei momenti difficili, e per tutta la vita, fece piantare alberi da frutto, rose e platani è unica. In primavera riconosceva sedici specie di tulipani selvatici sulle alture attorno a Kabul». Dopo gli anni della devastazione bellica, che ha quasi raso al suolo la capitale dell’Afghanistan, questo giardino è tornato a risplendere grazie a una preziosa attività di restauro e conservazione: sotto l’attenta presenza dell’Istituto di Archeologia tedesco sono state fedelmente rispettate le volontà di Babur, e questo giardino ha ritrovato finalmente il suo antico splendore.

Le lancette dell’orologio stanno tornando indietro per questo martoriato e affascinante paese, l’Afghanistan, al centro da secoli del Grance Gioco delle superpotenze. È una specie di maledizione che perseguita questi territori, poveri e aspri, abitati da indomabili guerrieri. Anche noi italiani abbiamo fatto la nostra parte.

Nella prima metà del XIX secolo, mentre l’immenso territorio dell’Asia centrale cominciava a diventare il terreno del Grande Gioco tra l’imperialismo russo e quello britannico, e dove tutte le strade portavano in India, un oriundo napoletano di nome Paolo Avitabile fu chiamato dal maharaja del Punjab a governare la turbolenta città afghana di Peshawar, e seppe imporsi sulla popolazione (di maggioranza pashtun), riducendola all’ordine con metodi da Tamerlano, impiccando, fucilando, impalando o gettando dai minareti tutti coloro che non seguivano alla lettera le regole dell’impero sikh e del governatore in particolare. Ancora oggi nei territori circostanti il mitico Khyber Pass si mormora con un misto di orrore e rispetto il nome di quell’uomo, Abu Tabela, riduzione afghana del nome di Paolo Avitabile, un cannoniere di Murat che seppe diventare generale e governatore dell’imperatore sikh, sulla scia di tanti militari europei che, dopo Waterloo, andarono a offrire i propri servigi presso i potentati d’Oriente, dalla Turchia all’Indocina.

Oggi i talebani sono arrivati a 50 km da Kabul. Sì, i talebani che hanno distrutto i Buddha pantocratori di Bamiyan e che con la violenza vorrebbero riportare l’Afghanistan a un medioevo di barbarie, di proibizioni iconoclaste. Dopo aver invaso e devastato il paese con una guerra insensata, gli USA lo stanno abbandonando. Basterebbe un accordo con l’Iran, e tutto sarebbe presto risolto, ma gli USA in Medio Oriente continuano tenacemente nella loro politica pro-Israele e pro-Sauditi, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Come le guerre in Siria, in Libia e nello Yemen, i conflitti regionali sono sempre più governati dai grandi attori internazionali, e la Cina ha tutto l’interesse a penetrare in Afghanistan per favorire le sue nuove Vie della Seta marittime e terrestri. Pagherà ancora una volta la popolazione civile, pagheranno ancora i patrimoni materiali e immateriali diffusi, e i disastri umanitari torneranno ad essere i protagonisti di una storia che da secoli vede contrapporsi religioni, popoli, nazioni, ed è regolata dalla violenza e dal linguaggio delle armi. Gino Strada ci ha lasciato, lui non era un pacifista ma era contro la guerra. Emergency ha fatto molto per l’Afghanistan. L’augurio è che qualcuno raccolga il patrimonio e la passione civile di Gino. Che il giardino luminoso del re angelo di Kabul possa sopravvivere a questi nuovi rigurgiti di violenza. E che si possa ancora, come Babur, piantare alberi e fiori e non seminare mine antiuomo nei campi.

[1] Peter Hopkirk, Il Grande gioco. I servizi segreti in Asia centrale, Adelphi, Milano, 1990

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore