Il comandante diavolo: Amedeo Guillet

Amedeo Guillet, all’epoca della battaglia di Agordat (gennaio 1941), era a capo col grado di tenente del Gruppo Squadroni Amhara, un gruppo di bande a cavallo composto da ascari appartenenti all’etnia etiope Amhara, nonché da eritrei e yemeniti. Forte di 1.700 uomini, questo gruppo allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale fu assegnato alle zone d’operazioni tra Eritrea e Etiopia e si distinse per azioni ai limiti dell’impossibile.

Dopo la sconfitta di Agordat, Guillet giunse a Cheren il 2 febbraio 1941, e dopo aver cavalcato per quasi cento chilometri lungo la ferrovia da Agordat, con le sue gesta ai limiti dell’impossibile ritardò l’inseguimento britannico delle truppe italiane in ritirata: nello scontro di Cherù attaccò con due cariche di cavalleria i carro armati e l’artiglieria pesante inglese, cariche che dallo stesso bollettino di guerra britannico furono definite “[…] il più brillante e temerario episodio di questa campagna”. Restarono uccisi in questi assalti 179 cavalieri, tra cui il tenente Renato Togni, Medaglia d’oro al valor militare, oggi sepolto a Cheren. Furono le ultime cariche di cavalleria nella storia militare italiana in Africa Orientale. Con quello che rimase del suo gruppo Guillet partecipò anche alle battaglie di Cochen e Teclesan prima della caduta di Asmara (1° aprile 1941). E comunque non aveva nessuna intenzione di arrendersi.

L’Africa Orientale Italiana e l’impero erano ormai perduti. I blocchi navali dei britannici a Gibilterra e Suez impedivano ormai da mesi i rifornimenti, e Amedeo d’Aosta era stato abbandonato al suo destino da Mussolini. Dopo un pretestuoso attacco a Cassala, in territorio sudanese, le truppe italiane e gli ascari a supporto dovettero presto ripiegare davanti all’avanzata inglese. Tolta l’uniforme italiana e assunta l’identità di Cummandar es Sciaitan (Comandante Diavolo), con solo un centinaio di suoi fedelissimi indigeni straccioni armati di moschetto Guillet continuò a combattere anche dopo gli esiti infausti della battaglia di Cheren (5 febbraio-1° aprile 1941), uno degli eventi più drammatici della Seconda Guerra Mondiale in Africa. Guillet non era né un santo combattente né un asceta. Anteponendo il dovere a tutto, e trattando i suoi soldati indigeni con dignità e rispetto, fece ammattire gli Inglesi per altri otto mesi. Lo seguiva la bellissima figlia di un capotribù locale, Kadija, e permise ai suoi uomini di portare sempre al seguito i rispettivi nuclei familiari, in barba alle disposizioni governative.

Alla fine dell’ottobre 1941, anche Guillet dovette arrendersi all’evidenza: non aveva più senso combattere in quelle condizioni, e dei suoi cento uomini ne erano rimasti solo una trentina. C’era una vena di donchisciottismo in lui, sempre accompagnata da sano realismo che gli permetteva di “frenare il cavallo prima dell’ostacolo per meglio farlo saltare”. Scrive Vittorio Dan Segre nel suo “La guerra privata del tenente Guillet”(1993):

“[…] Nessun indigeno l’aveva abbandonato di volontà propria, in quei mesi di stenti e di azioni spericolate. Molti li aveva obbligati lui a tornarsene a casa, troppo malconci per continuare a seguirlo. Altri non vi sarebbero mai più tornati e nessuno avrebbe saputo dov’erano sepolti […]. Non era un disonore cessare la lotta senza essere battuti […]. Aveva così radunato i suoi uomini, un pomeriggio, sotto un gruppo di acacie nella petraia tra Ghinda e l’Asmara […]. “Abbiamo lottato sino allo stremo delle forze”, diceva loro Amedeo, “abbiamo fatto più del nostro dovere […], non cessiamo la lotta perché siamo stati battuti; la sospendiamo per decisione nostra, dopo aver tenuto testa per mesi a forze cento volte superiori, impedendo agli Inglesi di spostarle in Egitto […]. Il ricordo delle loro imprese sarebbe evaporato nel vuoto dell’Africa; monumenti non sarebbero mai stati eretti in loro onore […]. L’orgoglio di sapersi imbattuti, la soddisfazione di non essersi piegati al nemico, avrebbe calmato solo per poco il rimpianto per un’esistenza di guerra diventata una seconda natura”.

Amedeo Guillet fu così costretto alla fuga. Si nascose in una baracca ad Al-Katmia alla periferia di Massaua, facendo l’acquaiolo e assumendo la falsa identità di Ahmed Abdullah al Redai. Divenne un autentico musulmano grazie alla perfetta conoscenza della lingua araba. Fu scaricatore di porto e guardiano notturno. Racimolò i soldi necessari per imbarcarsi verso lo Yemen. Tentò una prima volta di attraversare il Mar Rosso ma venne depredato, buttato a mare e abbandonato nel deserto eritreo. Fu salvato da un dromedariere che lo ospitò per lungo tempo nella sua capanna e che gli offrì in sposa la figlia. Ma Guillet voleva tornare in Italia. Beffò gli Inglesi ancora una volta: spacciandosi per un parente del dromedariere ottenne un lasciapassare per lo Yemen dal governatore britannico. Giunto nel porto di Hodeida venne arrestato in quanto sospettato di essere una spia al soldo dei Britannici. L’imam yemenita Yahya lo invitò nella sua reggia e Guillet raccontò la sua storia, così l’imam (che amava follemente i cavalli) lo nominò palafreniere: le sue straordinarie capacità ippiche gli salvarono ancora una volta la vita, e Guillet venne elevato a “Gran Maniscalco di Corte” e col nome di Ahmed Abdullah divenne precettore dei figli dell’imam yemenita, nonché responsabile delle sue guardie a cavallo.

Nel giugno del 1943 Guillet tornò a Massaua e, beffando ancora una volta gli Inglesi, si imbarcò su una nave della Croce Rossa Italiana fingendosi un civile italiano divenuto pazzo; il 3 settembre 1943 giunse a Roma, e pochi giorni dopo lo colse l’armistizio dell’8 settembre. Attraversata la linea Gustav giunse a Brindisi dove operò come agente segreto al servizio del Re d’Italia. Nel 1947 Guillet vinse un concorso pubblico per la carriera diplomatica, rifiutando fermamente i “trattamenti di favore” offertigli. Nel 1954 fu nominato incaricato d’affari nello Yemen, dove il figlio del vecchio imam Yahya lo accolse dicendogli: “Ahmed Abdullah, finalmente sei tornato a casa!”.

Nel 1961 Guillet intervenne sul fronte diplomatico evitando l’interruzione delle relazioni anglo – yemenite e nel 1962 divenne ambasciatore ad Amman, dove era solito cavalcare con re Hussein di Giordania che gli tributava l’appellativo di “zio” (termine che nella cultura araba è espressione di massima referenza): Guillet rimase per sei anni ambasciatore italiano in Giordania, incarico chiave in Medio Oriente al confine tra Israele e mondo arabo, e organizzò la visita di Paolo VI in Terra Santa, la prima di un papa cattolico. Nel 1967 divenne ambasciatore in Marocco, e nello stesso anno durante un tentativo di colpo di Stato contro re Hassan salvò alcuni diplomatici. Nel 1971 catturò nel giardino dell’ambasciata italiana di New Dheli un cobra vivo con le nude mani: in India addestrò i cavalieri della guardia del corpo del presidente indiano, e con lui era presente il sikh Mohinder Singh, che partecipò con Guillet alla carica di cavalleria a Cherù il 21 gennaio 1941, nel corso della quale morì Renato Togni. Nell’agosto del 1975, stanco del mondo, Guillet si ritirò in Irlanda, dove aveva acquistato una canonica georgiana, dipingendo, suonando e andando a cavallo.

Nell’estate del 1999 l’attuale presidente eritreo Isais Afwerki giunse in Italia per una visita di stato e chiese se era possibile incontrare Amedeo Guillet, che venne a sua volta invitato in Eritrea nel marzo del 2000. Accolto in quello che un tempo fu il circolo degli ufficiali italiani ad Asmara, incontrò gli Ascari sopravvissuti: Guillet scelse il più anziano, un novantaquattrenne di tre anni più anziano di lui e lo abbracciò. Tra la folla dei circa ottocento italiani rimasti nella capitale eritrea fece visita al cimitero italiano. Negli ultimi sessant’anni Asmara non era del resto cambiata molto, e non lontano sorgeva il cosiddetto “cimitero dei carri armati”, un gigantesco e sconfinato deposito di materiale bellico sovietico arrugginito, efficace testimonianza della vittoria degli eritrei sul potente nemico etiopico che ancora oggi fa mostra di sé (e attende di essere trasformato in un museo all’aperto, sempreché i Cinesi non comprino a prezzo di saldo il tutto).

La parte conclusiva della vita di Guillet resta tutta da scrivere, come i suoi tentativi di far riavvicinare Israeliani e Palestinesi (ne parlò anche a Nasser). Ci ha lasciato a 101 anni, uscendo dalla leggenda per entrare nella storia. Artista nell’arte dell’equitazione (fu candidato alle Olimpiadi), recitava a memoria interi canti dell’Orlando Furioso e possedeva l’innata umiltà dell’aristocratico, e ciò gli permise di vivere tra i più poveri di Massaua e di avvicinarsi ai precetti dell’Islam. Trattò i suoi soldati con dignità e rispetto. Dopo oltre mezzo secolo è tornata in Eritrea una troupe italiana per preparare un film sulla grande storia d’amore e di eroismo tra Amedeo Guillet e Kadija. Il documentario (“Looking for Kadija”) prodotto nel 2014 in collaborazione con Rai Cinema da Alessandro Caruso, Chiara Laudani e Francesco G. Raganato è un doppio, forse triplo film. Oltre di questa storia d’amore parla della nostra esperienza coloniale e delle condizioni di un paese che, all’epoca, era ancora isolato dal resto del mondo. E questa è proprio la capacità del grande cinema, quella di sognare, di guardare oltre le difficoltà e le amarezze della vita, ridando speranza.

C’è un motto inciso su una targa posta all’ingresso del cimitero militare italiano di Cheren, che raccoglie le spoglie delle centinaia di caduti, spesso ignoti, italiani ed ascari, durante quella terribile battaglia del 1941 che segnò i destini della presenza coloniale italiana. Orbene, quel motto lo ha scritto proprio Amedeo Guillet e recita:

[…] Gli Eritrei furono splendidi. Tutto quello che potremo fare per l’Eritrea non sarà mai quanto l’Eritrea ha fatto per noi “.

Ancora oggi l’esempio del “comandante diavolo” ci insegna il significato autentico della resilienza, della fedeltà e del rispetto. Nel paese dei mille comandanti Schettino, che abbandonano la nave per primi, dei troppi incompetenti nei posti di comando e dei mille politici che si nascondono dietro all’anonimato del potere e a una dilagante irresponsabilità, anche davanti ai fatti più gravi, vi fu qualcuno che decise di non arrendersi e che continuò nella sua ostinata e personale battaglia contro i britannici: era un ufficiale di cavalleria che a capo di un centinaio di Indigeni proseguì la sua guerriglia tra le pianure desertiche dell’Eritrea operando tra Massaua, Cheren, Agordat e Cherù, lanciandosi a cavallo contro i carri armati britannici. Lo fece per dignità e senso dell’onore, ben sapendo di essere sconfitto. Vestito da arabo, venne seguito da straccioni – guerrieri che non percepirono mai un soldo di paga e soffrirono la fame e la sete standogli sempre accanto. Quegli accattoni malarici combatterono in nome della fedeltà al loro condottiero: il suo nome era Amedeo Guillet, che resterà per sempre nei nostri cuori e nelle nostre menti come ambasciatore dell’Italia nel mondo.

Nella foto, Amedeo Guillet, ormai novantunenne, bacia un anziano ascaro ad Asmara (2000)

Per approfondire si consiglia la lettura di Alessandro Pellegatta, “Eritrea. Fine e rinascita di un sogno africano”, Besa editrice, 2017

 

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore