I Beja, il Deserto della Nubia e la loro società senza Stato

Gli antichi Egiziani indicavano col nome di Blemmu (o anche Blemmi) le popolazioni nomadi che infestavano con le loro frequenti incursioni le regioni più meridionali del loro regno, e specialmente le regioni desertiche situate ad oriente del Nilo. Un’antica iscrizione di Adulis, ed una di Aksum, indicano le popolazioni più prossime all’altopiano eritreo col nome di Bega o di Bugàiti, facilmente identificabili coi Beja dei nostri giorni. Si tratta, a quanto pare, di un’unica grande famiglia, della quale i Blemmu furono la parte a più stretto contatto degli antichi Egiziani. Essi dipendevano da Meroe, sorta con tutta probabilità in contemporanea alla formazione del Regno degli Habasciat (Abissinia).

Meroe si posizionava alla confluenza dell’Atbara col Nilo. In quest’area geografica si spingevano le migrazioni di transumanza periodica delle popolazioni del Barca, dell’Anseba e del Sahel eritreo. Salvo qualche periodo di dissidio, le relazioni tra Meroe ed Aksum erano amichevoli, e ciò favorì il contatto tra popoli diversi, costituiti prevalentemente da tribù dedite alla pastorizia, che si influenzarono e contaminarono a vicenda. Nel III secolo a.C. il geografo greco Eratostene, dopo aver descritto Meroe, annota che lo spazio tra il Nilo e il Mar Rosso è occupato da popoli che chiama Megabari, Blemmu e Trogloditi. Li localizza in modo approssimativo e cita la sottomissione dei Blemmi al regno di Kush. Attraverso queste fonti frammentarie emerge una realtà fondamentale: cioè la presenza di società senza Stato. Ai confini degli storici regni di Meroe ed Aksum, e addirittura anche all’interno di tali territori, e in particolare tra il grande e inaccessibile Deserto orientale nubiano e il Mar Rosso, hanno vissuto i Beja, fiero popolo di allevatori nomadi, occupando uno spazio fisico e culturale molto importante all’interno dell’Africa nord-orientale. Questa società “senza storia”, in quanto priva di tradizioni scritte, in realtà ha ben vissuto all’interno della storia. Feroci e molto temuti, gli antenati degli odierni Beja portavano a termine rapide incursioni nella valle del Nilo, colpendo e razziando le città e tornando rapidamente nel deserto, di cui sono rimasti gli incontrastati padroni. Di carattere schivo e solitario, i Beja vivono tuttora in un vasto territorio semidesertico, situato parte nell’Egitto meridionale, parte in Eritrea, nel Sudan e nel nord dell’Etiopia.

Rispetto al passato, la loro area di occupazione dei Beja si è spostata più a sud, probabilmente a seguito della conquista araba del loro territorio. Praticano l’allevamento dei dromedari e delle capre, ricavando dagli animali quanto basta per il loro sostentamento. Talvolta spingono grandi mandrie di dromedari attraverso centinaia di chilometri nel deserto per venderle nei grandi mercati della valle del Nilo. Disdegnano l’agricoltura preferendo ottenere, ancora con il baratto, i cereali e le altre derrate alimentari necessarie per l’alimentazione umana e animale. Alcuni loro strumenti ed utensili hanno origini antichissime, come i recipienti di steatite che creano scolpendo con il coltello questa pietra tenera o il bastone ricurvo (“trombash”), già noto nell’Egitto faraonico. I Beja non amano i grandi raggruppamenti, e vivono in semplici abitazioni realizzate da semplici ossature di rami disposte ad arco, sulle quali estendono pelli e stuoie di paglia. Sono ripari semplici da smontare, simili alle yurte, e caricare sui dromedari nei loro frequenti trasferimenti per trovare sempre nuovi pascoli indispensabili per la sopravvivenza dei loro armeni.

Dalla valle del Nilo al Mar Rosso il Deserto orientale nubiano è intervallato da numerosi uadi, e alcune di queste vallate sono servite come strade di accesso per i porti del Mar Rosso e per le risorse minerarie di tale Deserto (oro e smeraldi, in particolare). Il paesaggio non è poi completamente desertico, e le piogge possono occasionalmente irrorare oltre alle zone costiere anche le aree più interne. Ed è proprio nel territorio dei Beja che i fratelli Castiglioni effettuarono nel 1989 una scoperta archeologica molto importante: scoprirono infatti la mitica Berenice Pancrisia, la città “tutta d’oro”. Alla fine dell’Ottocento circolava ancora una curiosa leggenda nei vicoli e nel suk del Cairo. Secondo la stessa, c’era, nel cuore del deserto nubiano, una città-fantasma che era possibile vedere una sola volta perché un malizioso genio (il jinn degli arabi) che ne era il geloso custode, la faceva sparire agli occhi di chi, avendola trovata, voleva rivederla. Il 12 febbraio 1989 i fratelli Castiglioni ritroveranno la città tutta d’oro citata da Plinio il Vecchio nel Libro VI della sua Naturalis Historia. Secondo l’accademico francese Jean Vercoutter, si tratta di una delle più grandi scoperte dell’archeologica moderna.

Oltre che nell’Antico Egitto, la ricchezza d’oro di queste montagne era ben conosciuta anche nel periodo medioevale arabo. Agli occhi dei fratelli Castiglioni riapparvero come d’incanto, dopo settimane di tenaci ricerche, i delicati resti di questa città fantasma, gli antichi alamat costituiti da cumuli di pietra a secco che indicano le vie carovaniere, gli sterri, gli scavi a trincea, le gallerie che furono scavate alla ricerca del quarzo aurifero e le fragili strutture della città stessa. Tornò alla mente il lavoro pesante di innumerevoli uomini umili, che vivevano in questa desolazione, di intere generazioni di minatori che soffrirono la sete, la fame e la fatica, e che abbandonarono le miniere nel XII secolo in quanto non più redditizie.

Aveva ragione l’antica leggenda: dopo il suo ritrovamento, il jinn di questi deserti inospitali, popolati soltanto dalle migrazioni dei Beja, hanno fatto scomparire ancora, e questa volta davvero per sempre, questa città. Migliaia di disperati alla ricerca di qualche pagliuzza d’oro hanno devastato tutto questo territorio, con tutti gli strumenti che la tecnologia mette a disposizione: ogni tomba è stata saccheggiata, ogni memoria archeologica è stata dissacrata. Solo gli spezzoni delle macine restano a testimoniare la fatica degli uomini che qui hanno scavato, sofferto e sono morti dopo una vita stentata.

Quando vediamo gli splendidi ori del corredo funebre di Tutankhamon e la fine oreficeria degli antichi Egizi, rivolgiamo il nostro pensiero a tutti gli schiavi, ai ragazzi, agli adolescenti che entravano nelle strette gallerie, nei cunicoli, per estrarre la roccia quarzifera e portarla a cielo aperto; a chi frantumava il quarzo in mortai di pietra con un pestello, fino a ridurlo alla dimensione di una lenticchia; e a tutti coloro che azionavano manualmente le macine dai manici di legno, come ha lasciato scritto Diodoro Siculo, storico siceliota, nato 90 anni a.C., aggiungendo che i condannati alle miniere avevano un unico desiderio: quello di morire presto.

Chi ha viaggiato come i fratelli Castiglioni per anni nei deserti africani conosce bene i pericoli dei deserti, ma anche le loro bellezze, tra cui primeggiano i purissimi cieli brillanti di stelle e le notti di luna incantevoli. Conosce lo stare insieme intorno al fuoco ad assaporare i miti e i racconti di queste terre solo apparentemente desolate, dove l’uomo per secoli e fin dall’antichità ha lasciato le sue testimonianze. Un mare senz’acqua di sola sabbia e brulle montagne li attende comunque. E poi c’è il terribile khamsin, il vento caldissimo e secco che soffia ad intermittenza da sud e prosciuga le membra e disidrata, e le insidiose acque di Satana, come le chiamano gli arabi, e cioè i magnifici e terribili miraggi. In mezzo a quelle sabbie asciuttissime si scorgono acque in grande quantità e con gli aspetti più vari, mari senza confini che ondeggiano nella calura. I monti che stanno all’estremo lembo del deserto sporgono a modo di isole dallo specchio di quelle acque inesistenti, e in quello specchio si vede nuovamente la loro immagine capovolta per effetto della riflessione. A causa di queste illusioni ottiche molte carovane si sono perdute alla ricerca di un poco d’acqua, di un pozzo che poteva fare la differenza tra la vita e la morte. Ma c’è una cosa che i fratelli Castiglioni sanno: il termine stesso della parola Nubia deriva indubbiamente dalla radice nub, che significa oro.

Berenice Pancrisia e il suo territorio sono stati saccheggiati dai cercatori d’oro, che hanno distrutto le antiche preesistente archeologiche che il deserto aveva preservato per secoli. I Beja continuano invece nel loro eterno girovagare e nella loro vita libera ed essenziale. Profondi conoscitori del loro ambiente ostile, riescono a trovare i più piccoli punti d’acqua, conservando memoria dei pozzi. E resistono ai cambiamenti. Coloro che tentarono di acquistare l’immortalità con l’oro del deserto nubiano (faraoni, cesari, califfi e governatori) sono scomparsi da tempo, mentre i Beja continuano a vivere la vita pastorale dei loro avi, povera ed essenziale, a contatto con il deserto e le stelle.

In tutto il mondo gli uomini si affannano e lavoro per riempirsi la vita di beni in fondo inutili, mentre i Beja, come i beduini e i Tuareg, preferiscono rimanere poveri e liberi. Nel deserto si viaggia infatti sempre “leggeri”. Rassegniamoci. Il bello della vita non si può ancora comprare. E nemmeno il brutto si può vendere al miglior offerente (i rimorsi, i rimpianti, le azioni malvagie, le voci della cattiva coscienza). Le cose che si possono vendere o comprare forse ci sopravvivranno, ma la maggior parte di esse moriranno con noi. Perciò è meglio fare come i nomadi e i Beja: liberarsi di tutto il superfluo, e vivere o morire leggeri. E per testamento lasciare solo saluti, ricordi e, per chi come me è malato di scrittura, qualche pagina che parla del mondo e delle sue meraviglie.

Dobbiamo ancora imparare molto da questo ecosistema, che vive di impercettibile rugiada, di niente, e dalla vita essenziale dei Beja. Ora comprendo finalmente le parole di Thesiger, che nel Prologo del suo mitico “Sabbie d’Arabia” scrisse: “[…] nessuno può condurre questa vita e rimanere immutato…Porterà con sé, per quanto debole, l’impronta del deserto. La potente alterità del deserto ha per secoli affascinato i grandi viaggiatori occidentali; il deserto in fondo altro non è che una dimensione metafisica, l’allegoria dell’essenza della vita dove un tè caldo, una borraccia d’acqua, un fuoco e la rugiada mattutina sono quanto di più prezioso e vitale per avanzare, e dove gli uomini si riconoscono nell’etnia e nell’alleanza tribale”.

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore