Gioacchino (il poeta del vino)

Come ha scritto Enzo Bianchi, “[…] bere vino richiede che uno abbia voglia di aiutare la vita, e al contempo richiede che uno, nella consapevolezza della morte ineluttabile, voglia dire sì, amen alla vita”. Sempre secondo Enzo Bianchi,”[…] il vino richiede misura ed esige responsabilità”. Gioacchino è stato una sorta di santo bevitore, e ha deciso di dedicare la sua lunga vita agli eccessi alcolici e ai miscugli, senza prendersi tante responsabilità. Non per annegarsi nell’oblio, ma per obbedire alla regola di non avere regole. Ignorante nella sua sapienza, visse alla giornata. Oggetto di scherni e di dileggi, fu troppo timido e indifeso per affrontare i suoi giorni. Il vino diventò così la sua ancora di salvezza, il suo rifugio. Cencioso e puzzolente vagò per le campagne, solitario e innocente. Apparteneva a un mondo melanconico, e morendo portò con sé tutta la poesia dei suoi giorni.

Giacchino era un uomo selvatico ma sapiente, pur non essendo mai andato a scuola. Parlava poco, e solo dopo aver bevuto, per prendere coraggio. Era un po’ balbuziente e si faceva fatica a capirlo. La sua era una lingua strana, un misto di dialetto dell’Appennino modenese e di tedesco, avendo lavorato come minatore in Germania per alcuni anni. Poche erano le sue frasi apodittiche, che coglievano comunque sempre nel segno. Quest’uomo balbuziente, in realtà, aveva un animo nobile e tenero, e non si curava mai dei soldi. Percepiva la sua pensione, ma la carta moneta rimaneva spesso arrotolata nelle tasche, si macchiava di vino e di schifezze, e rimanendo in quelle tasche finiva con l’andare in fumo, bruciando insieme ai vestiti che, grazie a una brava donna, cambiava ogni tanto (la donna lo spogliava e con una canna di gomma lo lavava col getto dell’acqua fredda).

Gioacchino emanava un odore acre, inconfondibile, un misto di stalla, di bosco, di sudore e di cenere. Quando beveva tanto se la faceva anche sotto. Spesso nel vino, per schernirlo, gli mettevano di tutto, il peperoncino, i lassativi, la cenere e il pepe. Ma Gioacchino era sempre contento e sorrideva innocente. Ricordava di tutti la data di nascita e l’onomastico, ma era considerato un imbecille, uno stolto, un buono a nulla, e diventava oggetto di dileggio.

Rivedo quest’uomo mite scendere a passi svelti dal bosco, con un sacco di grano sulle spalle. Mentre aspettava che mio nonno, mugnaio, gli macinasse il suo grano, parlava con i gatti del molino che, annusando qualcosa dalle sue vesti, gli si strusciavano contro con la coda ritta. Poi, dopo aver bevuto insieme a mio nonno del lambrusco, si alzava, salutava togliendosi il cappello di paglia e tornava nel bosco con il suo sacco di farina, rifacendo in salita quel sentiero. La sua era una buona follia, e quel vivere paradossale lo rendeva unico.

Forse nel vino Gioacchino annegava le incertezze, e non sentiva mai il bisogno di condividere con altri la gioia dell’ebbrezza rubina. E anche quando si ubriacava rimaneva mite e discreto, confinato nel suo mondo, senza mai perdere la trebisonda. Poi si alzava da quella sedia traballante di osteria, e barcollando si allontanava verso il nulla, senza una meta precisa. Non era stupido, né amava i piaceri della tavola. Si sedeva sempre nel solito angolo e accanto all’immancabile bottiglia di rosso balbettava da solo, senza disturbare nessuno. Eppure, la sua presenza e le sue stranezze hanno dato più di altro il senso di quei giorni.

Lo ricordo con quella strana zazzera e la barba incolta, i vestiti laceri e le scarpe sfondate. Era il principe dei clochard, una figura straordinaria di “santo bevitore” che non era mai stato miracolato dalla vita e che viveva fuori dal suo tempo in quel grumo anonimo di case, con quei suoi vispi occhi verdi. Viveva solo, dormendo dentro quella ruvida cassapanca posizionata in una stalla, insieme a quelle bellissime mucche bruno alpine, che d’inverno lo riscaldavano, e non l’ho mai sentito lamentarsi o alzare la voce. Fece in vita sua una sola vacanza a Rimini, ma in spiaggia durante quella furtiva estate ci andava sempre col cappello e con la giacca di lana. Pisciava nei vasi da fiore, facendo imbestialire gli albergatori, e sedendosi nei bar all’aperto in quei lunghi pomeriggi assolati volgeva sempre le spalle al mare; sembrava non volesse nemmeno ascoltare le promesse di quel blu sconfinato, che riteneva troppo vago e infingardo.

Chissà chi fu veramente Gioacchino. Quando accostava il bicchiere alla bocca era come se pregasse, e sorseggiava il vino con delicatezza, assaporando goccia a goccia il nettare. Ogni sorso di quelle infinite bevute sembrava per lui una liberazione. Forse sapeva di esser protetto dal Dio dei Ciucchi, l’unico che forse si degnò di compatirlo, di ascoltarlo e di comprendere le sue sofferenze. Morì a novant’anni, passando gli ultimi mesi della sua esistenza paralitico sopra una sedia a rotelle. Fu affidato a una casa di cura, dove ogni giorno venne sbarbato, lavato, imboccato, coccolato, ed ebbe più affetti in quei pochi mesi sciagurati che in tutta la sua vita. Ma non era più lui, lo sguardo era perso, non parlava, e insieme ai suoi vestiti cenciosi e puzzolenti si erano persi tutti i suoi sogni: i suoi bellissimi occhi verdi erano spenti. Avrebbe anelato ancora qualche bicchiere di vino, ma glielo vietarono.

Mi manca molto Gioacchino, e solo ora la gente forse si è accorta di avergli in fondo voluto bene. Oggi Gioacchino riposa accanto a mio nonno nel cimitero di Vaglio, una frazione del Comune di Lama Mocogno (Mo). Di uomini così dolci e così matti non ne nascono più.

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore