Ghoufi (Algeria)

Il canyon o balcone di Rhoufi o Ghoufi, dal nome dell’omonimo villaggio nel territorio del comune di T’kout nel Wilaya di Batna in Algeria, è una lunga e profonda gola scavata dallo oued Abiod nel suo corso attraverso i contrafforti meridionali del massiccio dell’Aurès. Le gole di Ghoufi sono scavate tra rocce metamorfiche e sedimentarie. La vegetazione sul fondo della gola è quella tipica delle oasi, caso unico in questa regione. Il fondo del canyon ospita un grande palmeto ed alcuni villaggi ora abbandonati, meta di un numero crescente di turisti. Il palmeto purtroppo è stato oggetto di incendi vandalici e le infestanti stanno aggredendo questi palmeti meravigliosi. Anche le case costruite nella falesia sono state per lo più abbandonate e attendono di essere riutilizzate per finalità turistiche: tra le case si notano grandi granai fortificati. Le gole di Ghoufi e di El Kantara con i relativi villaggi ed il parco dell’Aures sono stati inseriti dall’Algeria tra le Candidature alla lista dei patrimoni dell’umanità (30 dicembre 2002).

Nei climi aridi, come quello del sud-est dell’Algeria, gli insediamenti umani si svilupparono generalmente lungo gli avvallamenti (wadi), che durante il periodo delle piogge drenano quelle preziose riserve idriche necessarie per le coltivazioni. Queste condizioni microclimatiche favorirono la realizzazione dell’architettura vernacolare, e la valle di Ghoufi fu per lungo tempo abitata e coltivata dalla tribù berbera dei Chaoui. I principali insediamenti, anche per ragioni di difesa, erano posizionati in cima alle colline: i granai erano fortificati e in caso d’improvvise alluvioni gli insediamenti davano riparo alla popolazione.

Come ha scritto l’amica Carla Reschia, con cui ho avuto il piacere di visitare l’Algeria, dal Balcon de Ghoufi la vista è spettacolare, un colpo d’occhio unico sulla lunga e profonda gola scavata dallo oued Abiod, il «fiume bianco», attraverso i contrafforti meridionali del massiccio dell’Aurès, nel nordest dell’Algeria. In fondo al canyon palme, antiche case di pietra, frutteti e giardini creano una grande oasi, verde e inattesa nella zona montuosa e già arida dell’Atlante presahariano. Il palmeto oggi purtroppo versa in cattive condizioni: molti alberi sono bruciati, altri sono caduti. Le infestanti e le piante spinose hanno invaso gli spazi un tempo coltivati nei palmeti. I villaggi sono stati da tempo abbandonati, e i proprietari si sono dispersi in diaspora: quest’area è stata occupata anche dai terroristi islamisti che qui si nascondevano. Quello che per secoli è stato un paradiso è diventato un luogo degradato. L’abbandono e la mancata manutenzione hanno gravemente ammalorato le case tradizionali realizzate in pietra e fango, con tetti leggeri che furono realizzati utilizzando i tronchi di palma: in tal modo si garantiva grande elasticità alle abitazioni in zone altamente sismiche. Ma tutto non è andato ancora perduto. Un team di architetti restauratori del Politecnico di Milano e all’opera e sta elaborando un heritage project.

Antichissimo insediamento berbero, Ghoufi era un’importante via di transito; da qui infatti passava, ed è ancora visibile, la via carovaniera che collegava il deserto con il mar Mediterraneo. L’area è un affascinante mescolanza di caratteristiche naturali e di ambiente antropizzato, testimonianza di un’evoluzione millenaria e di una perfetta integrazione. Dai tempi più antichi, a cui risalgono le prime abitazioni scavate nella nuda roccia, fino all’hotel Transatlantico, una serie di bungalow semi trogloditici addossati alla parete della gola costruiti negli Anni Trenta da un francese visionario e abbandonati dopo poche stagioni e ora a malapena distinguibili dai manufatti indigeni, questo wadi è stato abitato da intere generazioni, che vi si rifugiavano nel periodo estivo per sfuggire alla temperatura torrida e trovare refrigerio e fonti d’acqua. Nelle altre stagioni dell’anno la gente berbera viveva nelle case in superficie, coltivando ampie estensioni di grano, che veniva stoccato in magnifici granai fortificati che, ancora oggi, resistono all’incuria e all’abbandono.

Fino al recente abbandono, causato da un’alluvione improvvisa, la prosperità della valle è rimasta legata sia allo stretto rapporto con il territorio circostante sia all’autonomia idrica e alimentare. A dominare gli insediamenti infatti sono i citati granai, kalaat o guelaa, nella loro doppia funzione di depositi e di fortezze in caso di attacco nemico. Oggi questa profonda gola, che si apre a pochi passi dalla strada panoramica che attraversa il massiccio, resta una preziosa memoria storica ma potrebbe divenire in futuro un’importante attrazione turistica, apportando importanti fonti di reddito alla popolazione locale. È già stato ristrutturato e consolidato il sentiero che porta ai villaggi e ai giardini del fondovalle, e sono stati sistemati alcuni cartelli informativi. Ma la scommessa è aprire il sito al pubblico studiandone e preservandone l’integrità e salvaguardando la peculiarità dei luoghi e le straordinarie caratteristiche architettoniche dei suoi insediamenti berberi. E’ una grande scommessa, e ovviamente sarà determinante il sostegno dell’iniziativa della popolazione locale: la principale difficoltà è contattare i legittimi proprietari delle abitazioni e dei terreni, che spesso sono emigrati all’estero.

Anche per questo, qui dal 2017 è al lavoro un’equipe del dipartimento di Architettura e studi urbani del Politecnico di Milano che in collaborazione con l’Université Badji Mokhtar di Annaba, Faculté des Sciences de la Terre, ha avviato un programma di cooperazione internazionale per la conservazione/restauro, valorizzazione e formazione dell’area, che si è concluso nel 2019, e presto partirà un progetto di tutela e di recupero. L’obiettivo è recuperare il genius loci della località che, con le vicine gole di El Kantara e il parco dell’Aures è stata inserita dall’Algeria nella lista dei siti candidati al riconoscimento di patrimonio dell’Unesco. Le strategie di sostenibilità e “autoeconomia” applicata ai villaggi, ai palmeti, ai frutteti potranno portare all’elaborazione di un progetto di “marketing territoriale” volto a risollevare sia gli aspetti turistico – economici dell’area, sia quelli archeologici, architettonici e naturalistico -ambientali». Ghoufi rappresenta pertanto un importante laboratorio che può rappresentare la rinascita della cultura berbera algerina, e il consolidamento della sua gente nei territori ancestrali.

Recentemente lo spettacolare palmeto di Ghoufi è stato ancora vandalizzato, ma non abbiamo perso tutte le speranze per vedere rinascere questo luogo unico, stretto tra le montagne selvagge Aurès.

(tratto da Alessandro Pellegatta, “Abrid. Diario algerino”, Besa editrice, 2020)

 

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore