Etiopia. Fine di un sogno?

Dopo i venti di pace, ecco ritornare i venti di guerra nel Corno d’Africa. L’Etiopia, da potenza stabilizzatrice regionale, rischia ora la disintegrazione. È lo stesso modello federale etiopico che appare sul punto di non ritorno. La miccia è stata la rivolta del TPLF nel Tigrai, ma il fuoco del malcontento su base etnica covava da tempo sotto la cenere.

Tigrini e Oromo oggi attaccano militarmente la leadership centralistica del giovane primo ministro etiopico, che ora qualcuno vorrebbero destituire. La posta in gioco è altissima, e non solo per l’Etiopia. E, da sempre, i conflitti etnici in Africa vengono manipolati e strumentalizzati ad arte dalle superpotenze.

Qualcuno, evidentemente, sta alimentando questi venti di guerra per destabilizzare l’area, per poi tornarla a controllare a suo piacimento. Il processo federativo della Macroregione è diventato inviso alle grandi potenze egemoniche, che non hanno alcun interesse ad una duratura indipendenza, politica ed economica, del Corno d’Africa.

Oggi colpire l’Etiopia significa inoltre puntare anche alla destabilizzazione dell’Eritrea, un paese scomodo che, con sacrifici altissimi, ha difeso e difende la propria autonomia da nuove ingerenze neocoloniali, dopo aver conquistato faticosamente la sua indipendenza durante una tragica guerra di liberazione ultratrentennale.

Ma dopo la storica pace siglata nel 2018, come si è potuto arrivare a questo punto, con i ribelli del TPLF che, sostenuti dagli Oromo, si trovano ormai alle porte di Addis Abeba? È presto detto.

L’economia dell’Etiopia è in rapida crescita e ha un bisogno drammatico di energia. Il governo etiopico mira così da tempo a diventare un hub regionale di produzione, nonché il principale esportatore di elettricità nell’area, garantendo al contempo l’accesso universale all’energia entro il 2025. Per raggiungere questo obiettivo, Addis Abeba deve ora sfruttare pienamente le sue immense risorse idroelettriche, prima che la (lunga) transizione alle altre energie rinnovabili (solare, eolico) possa produrre i primi positivi effetti.

Ma questo faraonico piano espansivo sull’energia idroelettrica, che ha portato alla creazione della Diga del Grande Rinascimento sul Nilo Azzurro (dal costo di 5 miliardi di dollari), ha determinato, purtroppo, oltre a un enorme problema ambientale, anche una grave crisi geopolitica con gli altri paesi confinanti (specie Egitto e Sudan), che lamentano minori disponibilità di risorse idriche. Riempire il gigantesco bacino della citata Diga richiederebbe anni, e ciò rischia di lasciare a secco il Nilo, con gravissime ripercussioni per la vita di milioni di persone.

Finora, le trattive per la gestione del contenzioso sullo sfruttamento delle acque del Nilo si sono rivelate infruttifere: sul piano internazionale, inoltre, non esistono regole certe che regolamentino lo sfruttamento delle acque interne, mentre stanno aumentando anche i conflitti sulla regolamentazione delle acque marittime (si vedano, ad esempio, le pretese della Turchia nel Mediterraneo e il conflitto tra Somalia e Kenya).

La maggior parte della popolazione egiziana (90%) vive lungo le acque del Nilo, principale fonte idrica sia per l’Egitto che per l’Etiopia. La crescente influenza dell’Etiopia come potenza idroelettrica regionale sta quindi provocando continue tensioni sul piano internazionale: l’Egitto teme di vedere minato il proprio status e la sua influenza sulla politica regionale e non esiterà a spalleggiare i militari golpisti in Sudan pur di arginare i piani espansionistici idro-politici di Addis Abeba. In questo scenario, non si può inoltre escludere che il nuovo regime golpista di Khartoum possa sostenere le forze tigrine negli scontri con l’esercito federale etiopico.

Anche i principali produttori di gas e petrolio della confinante Penisola Arabica non vedono probabilmente con favore questo scenario di progressiva autonomia energetica del Corno d’Africa dal petrolio e dal gas.

La destabilizzazione del Corno d’Africa potrebbe inoltre favorire le mire espansionistiche della Turchia, che ha preso possesso dei porti della Somalia, e sotto la guida del suo attuale Sultano mostra chiare mire egemoniche su quest’area altamente strategica.

L’Europa, al momento, appare pressoché assente, non avendo una politica estera coesa ed essendo sempre più indebolita al suo interno dal nazionalismo dei suoi Paesi membri, che sono ossessionati dal controllo delle migrazioni e che non riescono più ad avere visioni strategiche di lungo raggio.

La Cina, che ha giganteschi interessi economici (commerciali e immobiliari) in Etiopia e che ha trasformato efficacemente questo paese in un hub per vendere le proprie merci, tramite il porto di Gibuti e la ferrovia superveloce che lo collega ad Addis Abeba, sta probabilmente studiando le sue contromosse: Dopo aver investito miliardi di dollari nelle sue nuove Vie della Seta marittime e terrestri non si lascerà certo sfuggire i suoi business.

Come in passato, sta implacabilmente tornando la propaganda delle fake news, abilmente diffuse ad arte per nascondere ciò che veramente accade. Niente di nuovo rispetto a quanto già successo negli ultimi decenni. Del resto, di osservatori veramente ‘neutrali’ ce ne sono ben pochi.

 La Commissione etiope per i diritti umani (EHRC) e l’Ufficio dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OCHCR) hanno pubblicato il 3 novembre 21 quello che hanno definito un “Rapporto di indagine congiunto sulle presunte violazioni dei diritti umani internazionali, sul diritto umanitario e sui rifugiati commessi da tutte le Parti in conflitto nella regione del Tigrai in Etiopia”.  Il rapporto si presenta tuttavia alquanto carente ed è stato ferocemente contestato dall’Eritrea.

L’Eritrea ha in primis annotato che “[…] l’EHRC e in particolare il suo direttore, il signor Daniel Bekele, hanno una lunga storia di disprezzo viscerale e inimicizia verso l’Eritrea. Un rapporto diffamatorio e completamente screditato che il signor Daniel ha prodotto, nel gennaio 2013, sul settore minerario eritreo e sull’impianto minerario di Bisha mentre era il capo della divisione africana di Human Rights Watch, è davvero illustrativo dell’agenda più ampia del “cambiamento di regime” che la sua agenzia perseguiva in quegli anni”.

Altro errore imperdonabile dei media e delle Istituzioni internazionali è stato probabilmente descrivere quella del TPLF come ‘una guerra di liberazione’. In realtà, il conflitto nel Tigrai è iniziato il 3 novembre 2020, quando il TPLF ha lanciato un assalto premeditato, massiccio e improvviso su tutte le posizioni del Comando settentrionale dell’Etiopia per neutralizzare il più grande contingente etiope. Gli obiettivi dichiarati del TPLF, in quello che ha definito un ‘assalto lampo’, erano di confiscare le armi del Comando settentrionale (che possedeva l’80% dell’arsenale totale dell’Etiopia) con il duplice scopo di riprendere il potere perduto in Etiopia attraverso una nuova guerra civile. Non contento, il TPLF ha inoltre lanciato tre razzi su Asmara, città Patrimonio dell’Unesco, che solo per puro caso non hanno creato tragedie.

La stessa Etiopia ha proceduto a espellere sette funzionari delle Nazioni Unite, accusati di “ingerenza” negli affari interni del paese. I sette sono stati dichiarati “persone non gradite” e costretti a lasciare il paese entro 72 ore. Una decisione che contribuisce a rendere ancora più opachi i risvolti del conflitto.

Chi oggi sta soffiando sul fuoco di questo caos, attentando alla stabilità e allo sviluppo economico dell’Etiopia, rischia tuttavia di ricreare nel Corno d’Africa un nuovo Afghanistan, che porterebbe presto a terribili crisi umanitarie: guerra e carestia sono peraltro un binomio indissolubile che ha segnato la storia secolare dell’intero Corno d’Africa.  

Niente di nuovo sotto il sole, dunque. Il motto divide et impera è da sempre la principale arma utilizzata da chi, a parole, vorrebbe la crescita dell’Africa ma che poi, nei fatti, fa l’esatto contrario ed è sempre pronto a sfruttare le lotte interetniche. Qualcuno ricorderà il genocidio del Ruanda.

C’è poi da soddisfare il florido mercato degli armamenti, e quando si parla di affari nel settore bellico nessuno va tanto per il sottile. Lo abbiamo visto, di recente, nella vicenda imbarazzante che ha coinvolto USA e Francia per la vendita dei sommergibili all’Australia…e lo vediamo nella terribile guerra dello Yemen, di cui nessuno parla più.

Anche il mercato degli ‘aiuti umanitari’ resta comunque un lucroso business da non trascurare affatto. In questo settore (non è un segreto per nessuno) regnano da anni non solo il caos di progetti contraddittori e a volte controproducenti, ma anche le speculazioni e le ruberie. Occorrerebbe passare dall’emergenza alla programmazione dello sviluppo, dando maggiore ruolo alle Ong non governative (quando presenti) e a microprogetti concreti di Cooperazione internazionale che soddisfino veramente le necessità della popolazione locale.

Ma alle parole seguono raramente i fatti, così i grandi carrozzoni dell’emergenza umanitaria continuano nella loro attività. Accettare aiuti esterni rischia inoltre di non farti più essere padrone a casa tua, e questo (e altro) molti Paesi africani lo sanno bene…e preferiscono continuare ad andare avanti con le proprie forze.

Il 5 novembre 21, dopo una guerra che doveva essere lampo e che invece si è trascinata fino ad ora, il TPLF ha formato un’alleanza con altri otto gruppi armati che si oppongono al governo centrale etiopico, tra i quali l’Esercito di liberazione Oromo, che proprio in queste ore sembra accogliere anche centinaia di disertori dall’esercito etiope ufficiale. Ahmed e il governo civile etiopico hanno le ore contate?

Il dramma dell’Etiopia e di tutto il Corno d’Africa corre oggi lungo i suoi dilemmi etnici e lungo le linee calde della sua geo-politica di sviluppo energetico. Nuovi crimini di guerra stanno colpendo la popolazione civile, con reciproci e continui scambi di accuse.

Ahmed vorrebbe trasformare l’Etiopia in un caso esemplare di stabilizzazione politica e transizione verso la democrazia in Africa. Di fede neo-pentecostale, il premier etiopico ha una visione ‘messianica’ della politica ed appare poco incline ai compromessi. Il suo progetto ‘illuminato’ rischia di creare un pericoloso precedente per chi vorrebbe continuare a sfruttare l’Africa a suo piacimento negli anni a venire. E, come quello di altri premier africani illuminati del passato, potrebbe non vedere mai la luce.

(nell’immagine: Soldate etiopi detenute nel Tigrai – foto di Yasuyoshi Chiba, AFP)

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore