Esploratori italiani in Somalia. I drammi di Bottego e di Baudi di Vesme [ultima puntata]

Bottego raggiunse il fiume Uebi Scebeli, esposto alle continue incursioni dei Galla e alle febbri malariche, ma doveva proseguire alla ricerca delle sorgenti del Giuba, sì, di quel fiume la cui foce era stata già esplorata via mare da Cecchi. Ma andare via terra in quei territori selvaggi era davvero un’impresa titanica e ben più pericolosa. Oltre alle razzie, frecce avvelenate e lance piovevano da ogni parte contro gli uomini della retroguardia.

I drappelli di uomini mandati in avanscoperta non tornavano più indietro, e da lì a poco venivano ritrovati a pezzi. Ma Bottego, il frengi (bianco) venuto dal mare, sapeva sempre il fatto suo. Il 22 gennaio 1893 raggiunse il Giuba con la sua carovana, decimata dalla fame e dalle febbri: in quel fiume pericoloso, limaccioso e giallo, c’era il cibo tanto invocato, gli ippopotami dal bianco grasso, che vennero sterminati anche per le loro zanne in avorio. L’avorio degli ippopotami, essendo più duro di quello degli elefanti, veniva infatti utilizzato per realizzare delle dentiere particolarmente apprezzate nell’Ottocento. E quell’avorio doveva ripagare le spese delle spedizioni di Bottego.

Poi il capitano Grixoni si rifiutò di seguire Bottego alla ricerca delle sorgenti di quel grande fiume, e stremato alla metà di febbraio abbandona Bottego portandosi via 32 ascari. Non ce la faceva più, e raggiungerà Brava sulla costa del Benadir alla metà di aprile. Bottego, invece, proseguì, nella sua grandiosa e tragica determinazione, con solo 63 ascari e pochi cammelli. Dopo aver resistito anche agli assalti dei Sidama, Bottego raggiunse finalmente le sorgenti del Giuba e cercò disperatamente le sorgenti del Dawa, ma non ce la faceva più nemmeno lui. Allora decise di ritornare verso il Giuba. Gran parte degli ascari morì per la fame, le malattie, gli stenti e gli attacchi prima di raggiungerlo. Il ritorno fu altrettanto doloroso, conquistato palmo a palmo con le armi sulla pista che lo riportò a Lugh, dove alla metà di luglio del 1893 Bottego riuscì ad ottenere dal Sultano locale (che comunque gli vietò l’ingresso nella cittadina) la liberazione del triestino Emilio Del Seno e dell’ingegnere svizzero Borchardt. La sua impresa si concluderà a Brava alla metà di settembre. Questa folle e straordinaria esperienza verrà raccontata nel volume “Il Giuba esplorato”, che uscirà nei primi del 1895, quando stava per partire la sua seconda (e tragica) spedizione.

Bottego aveva avuto successo, ma era molto amareggiato. Era incapace di muoversi in quella giungla che era diventata la politica italiana di quegli anni. Era ormai schiavo di un desiderio cinico e drammatico di gloria, che lo spingeva a superare la sua prima impresa per emulare Stanley, per rimanere nella storia. Ma Bottego sapeva bene che, a differenza di Stanley, non aveva alle spalle il re dei giornalisti americani, Gordon Bennet, né il re del Belgio Leopoldo II. Il suo destino era quello di ritornare in Africa, non era più in grado di vivere nell’impaludamento politico e sociale di quell’Italia: e non vedeva l’ora di fuggire da quell’ambiente, di affrontare i rischi. L’adrenalina di quelle avventure ai limiti della follia ormai faceva parte di lui. Inoltre, la sua scoperta delle sorgenti del Giuba non aveva fatto chiarezza sull’intricata struttura idrogeologica dell’Africa Orientale. E uno dei problemi irrisolti era proprio quello dell’Omo river.

Incapace di comprendere i voltafaccia della politica italiana, Bottego si appoggiò così alla SGI. Concordò il progetto della nuova spedizione con Giacomo Doria, presidente della stessa SGI e in precedenza fondatore del Museo civico di Storia Naturale di Genova. Bottego chiese mano libera, ma la SGI, interprete occulta delle mire coloniali governative, gli obbligò di impostare come via del ritorno la direzione NO, verso le miniere d’oro del Fazogl e la fascia di Beni-Sciangul, allo scopo di stringere amicizia con l’emiro Med-el-Guri che potesse chiudere il Menelik in una morsa. Venne esclusa la soluzione che stava più a cuore a Bottego: il Congo e l’Atlantico. Sì, proprio quel Congo che avrebbe dovuto essere esplorato da Cecchi ma che, a seguito delle vicende africane, era ormai caduto nel dimenticatoio. Ma Bottego non ebbe altra scelta, poteva solo accettare.

La seconda spedizione Bottego partì il 12 ottobre 1895. Gli ascari erano diventati 250, ma la fama del frengi rese estremamente difficile l’arruolamento. Per tale ragione, gran parte degli arruolati proveniva direttamente dalla terribile prigione di Nocra, una delle sperdute isole Dahlak su cui gli Italiani conducevano il loro lager, a patto che non fossero Abissini né Galla né Somali. Tutti gli altri andavano benissimo: tra essi vi erano ergastolani, stupratori, omicidi, ladri e razziatori. La nuova spedizione percorse all’inverso la via di ritorno della prima spedizione, ma invece che risalire il Giuba si tenne sulla destra, attraversando le terre dei bellicosi Rahanuen, sempre in precedenza evitati da esploratori e mercanti per via della loro pericolosità. E che non si smentiranno. Erano musulmani fanatici che si consideravano superiori agli altri popoli, e che uccidevano per un nonnulla, specie se la vittima era un infedele.

Bottego entrò in una Lugh semidistrutta e piena di cadaveri. Alla spedizione spettò il compito di ricostruirla, quale fondamentale avamposto italiano in quell’area così strategica. Dopo 40 giorni, la carovana ripartì, mentre Ferrandi si fermò, e attraversò un deserto terribile, senza nemmeno un pozzo d’acqua. Il 1° marzo 1896 (proprio lo stesso giorno della disfatta di Adua, di cui Bottego non saprà mai nulla), nei pressi dei pozzi di Salolè avvenne un tentativo di diserzione, e Bottego giustiziò subito senza pietà gli otto ascari ritenuti colpevoli. Ripartirono, senza sapere di essere diventati i nemici armati di un paese, l’Etiopia, in conflitto con l’Italia, e come tali passibili di essere uccisi o fatti prigionieri da chiunque su ordine del Negus. Nessuno si era comunque preoccupato di avvisare il Menelik, durante le trattative di pace che seguirono la disfatta di Adua, che una spedizione italiana stava ancora attraversando il suo territorio. Il 17 marzo 1897 essa fu massacrata, mentre la pace tra Italia ed Etiopia era stata suggellata già il 26 ottobre 1896! Se avesse disubbidito, andando verso il sognato Congo e l’Atlantico, forse Bottego si sarebbe salvato. Ma, per sua sfortuna, era un soldato abituato ad ubbidire. Il fascismo, alla ricerca dei pionieri dell’impero, stravolgerà in seguito la sua figura, violentando la memoria delle sue impossibili e crudeli imprese.

Altro esploratore italiano che si dedicò alla Somalia fu Enrico Baudi di Vesme, che ottenne dall’Accademia militare di Modena due mesi di congedo per compiere nel 1890 una spedizione che partì da Berbera ed esplorò l’alta valle del Nogal, nella Somalia settentrionale. Ad essa fece seguito, insieme a Giuseppe Candeo, una seconda spedizione ben più pericolosa che, partendo sempre da Berbera, attraversò l’Ogaden, giunse sulle sponde dello Uebi Scebeli e riprese la via di Zeila passando per Harar.

Il viaggio si trasformò presto in un calvario: oltre ad ammalarsi di malaria, i due verranno infatti catturati dal Menelik, che distrusse tutti i loro scritti, le collezioni e le fotografie. Solo grazie all’intervento di Cecchi e di Pietro Felter, impiegato della casa commerciale Bienenfeld e agente segreto italiano ad Harar, avvenne il loro rilascio. Le vicende di Candeo e Baudi di Vesme sono alquanto indicative dei conflitti e delle tensioni locali in atto in quel periodo. Vennero infatti arrestati ad Harar, ma poi, liberati, furono ben ricevuti a Combolcià dal governatore dell’Harar ras Makonnen, con cui si relazionava Felter, ma che in seguito, tuttavia, mutò contegno, e dopo averli privati di gran parte delle carte e dei beni, li invitò a lasciare il paese: il 10 giugno 1891 i due esploratori partirono per ritornare in Italia.

La causa del mutato contegno di ras Makonnen erano stati alcuni tentativi di penetrazione politica operati dal Candeo e dal Baudi di Vesme. Questi aveva accolto diverse domande di protettorato sottoscritte dai capi delle maggiori tribù somale invocanti l’aiuto dell’Italia contro le spogliazioni abissine. Tale maldestro tentativo politico non ebbe però alcun seguito, a causa dell’avversione del governo Di Rudinì a un’espansione coloniale. Deluso dal contegno delle autorità italiane, e inoltre avvilito per la scarsa importanza data al suo viaggio, Baudi di Vesme non fece più parlare di sé, e rifiutò persino la promozione a maggiore, giuntagli assai tardi, nel 1899.

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore