Dove sta andando la Libia?

Come ha riportato l’ISPI in un suo report dell’8 giugno 2020, in questi giorni, mentre il generale Khalifa Haftar e le sue truppe arretrano, a Tripoli si canta già (prematuramente) vittoria. Il Governo di accordo nazionale (Gna) di Fayez al-Serraj ha promesso di riprendere il controllo dell’est del paese e, in particolare, della Cirenaica, lanciato un’offensiva su Sirte, snodo cruciale per il controllo delle regioni petrolifere della stessa Cirenaica, nelle mani dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) dallo scorso gennaio. Dalla capitale libica arriva a stretto giro anche un secco ‘no’ alla proposta di cessate-il-fuoco avanzata dall’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi, sponsor di Haftar insieme con Emirati Arabi e Russia. Nel tentativo di contenere i danni, il presidente egiziano aveva ipotizzato una tregua e una sospensione delle ostilità a partire dalla mezzanotte di oggi. È difficile però prevedere cosa succederà ora: se dovessero spostarsi troppo a est, le forze di al-Serraj (oggi massicciamente sostenute dalla Turchia) composte da una coalizione di milizie più che da un vero e proprio esercito, potrebbero trovarsi a parti invertite nella stessa situazione che ha afflitto gli uomini di Haftar negli ultimi mesi: lontano dal proprio centro di potere, perdendo presa sulla realtà circostante e scoprendo al pericolo di assalti, le vie di approvvigionamento al fronte.

E l’Italia? Negli anni immediatamente successivi all’Unità, la Libia venne decantata come “la terra promessa”. Chi la scoprì dopo lo schiaffo di Tunisi fu Manfredo Camperio. Nel febbraio 1880 Camperio era già a Tripoli, dove visita a cavallo Tagiura, Homs e Tarhuna: la relazione di questo viaggio venne intitolata da Camperio “Gita nella Tripolitania”. Egli inoltre inviò due delegati a Bengasi per insediare una stazione commerciale. Di questo viaggio Camperio pubblicò una particolareggiata relazione sulla rivista “L’Esploratore” zeppa di annotazioni politiche.
Camperio si illudeva che le popolazioni libiche, e in particolare i Senussi, non attendessero altro che un governo colonizzatore forte, capace di liberarle dall’amministrazione turca. Ripeterà questa sua convinzione con l’articolo L’Italia nel Mediterraneo. Lo stesso suo errore lo commetterà anche l’Italia di Giolitti nell’occupare il litorale della Tripolitania e della Cirenaica nel 1911-12, trascinando l’Italia in una guerra durissima e interminabile a seguito della strenua resistenza e della guerriglia indigena, che porterà ad orribili repressioni e deportazioni le quali segneranno le pagine più nere dell’esercito italiano, insieme a quelle relative all’invasione dell’Etiopia del 1935.

L’occupazione militare della Libia fu così preceduta dalla penetrazione del Banco di Roma, operata per mezzo di attività capitalistiche. Tommaso Tittoni, Ministro degli Affari Esteri del secondo governo Giolitti, in un suo intervento al Senato del 10 maggio 1905, lo stesso giorno in cui apprese la notizia dell’appalto a una società francese per la costruzione del porto di Tripoli, individuò proprio nel Banco di Roma l’ente a cui affidare la tanto decantata attività di penetrazione in terra libica. Tra il 1907 e il 1911 tale banca effettuò un ingente impiego di capitali, che trasformarono progressivamente la penetrazione economica in influenza politica. I motivi che spinsero all’impresa vanno ricercati anche nello stretto vincolo di parentela del citato Ministro degli Affari Esteri col vicepresidente della banca (Romolo Tittoni) e nelle larghe simpatie che tale Ministro godeva nell’ambiente cattolico.

Il nazionalismo cattolico e la lotta contro l’infedele divennero presto il carburante per alimentare una guerra durissima e atroce. Mentre Manfredo Camperio non si sarebbe mai sognato di molestare i libici nella loro “tranquilla vita pastorale” e aveva idealizzato rapporti di libero scambio con i Senussi finalizzati alla penetrazione commerciale anche del Sudan, la violenza italiana trovò la sua giustificazione nella propaganda civilizzatrice, che si affermava progressivamente nelle coscienze attraverso una capillare diffusione di razzismo e di pregiudizi (che descrivevano i libici come dei fannulloni nullafacenti, incapaci di civiltà e di progresso).

Non ci fu mai pietà o umanità, ma solo la brutale ed inaudita violenza, che sfociarono nelle gesta di Graziani (che rivedremo pochi anni dopo anche in Somalia ed Etiopia). Atteggiamenti di inutile crudeltà segnarono la presenza dell’esercito italiano in Libia, come l’esecuzione gratuita di Omar al Muktar, che come ha scritto Luigi Goglia “[…] prima di ogni considerazione umanitaria rivelavano ancora […] una rozza e feroce applicazione della forza prima di pensare a più intelligenti e sagge misure di carattere politico che, in definitiva, sarebbero state anche più umane. Questa preferenza per l’impiego brutale della violenza fu una costante della componente fascista, ma già prima anche nazionalista, in colonia […]. Il fascismo in colonia, di fronte a difficoltà nella politica indigena, scelse […] per lo più la linea della repressione violenta e indiscriminata e quella del capestro e della fucilazione. Badoglio e Graziani interpretarono gli aspetti peggiori di questa tendenza, sia in Libia sia in Africa Orientale”.

Che cosa può fare oggi l’Italia in Libia, tra i tanti attori internazionali presenti, ora che i Turchi sono tornati stabilmente a Tripoli (dichiaratamente in funzione anti-egiziana, per via dei colossali interessi per il gas nel Mediterraneo)? La scelta italiana di non inviare armi ad una delle due parti può essere giustificata dalla necessità di evitare di aggravare il conflitto, che si comprende analizzando gli interessi di natura economica e politica del nostro paese in Libia. Dal punto di vista economico l’Italia ha un ruolo fondamentale nell’estrazione ed esportazione di idrocarburi (gas e petrolio): un settore di grandissima importanza per l’economia libica.

Negli ultimi anni l’Italia ha preso la controversa decisione di collaborare con il governo libico per ridurre gli sbarchi. Infine, esiste un’intensa collaborazione tra Roma e Tripoli per quanto riguarda il contrasto alle organizzazioni criminali e terroristiche e per impedire il traffico illegale di uomini e di merci. Un eccessivo rafforzamento di Haftar in Libia farebbe venir meno le necessarie condizioni minimali di sicurezza. La chiusura delle principali istituzioni metterebbe in crisi l’attuale sistema di distribuzione della rendita petrolifera, che è alla base del contratto sociale libico. Questo perché molti cittadini che svolgono una funzione pubblica (medici, insegnanti, poliziotti, impiegati comunali) si troverebbero senza stipendio per un periodo di tempo imprecisato. È evidente che se il conflitto continuerà, molti cittadini libici, privati delle fonti di reddito e costretti a sopravvivere in un contesto di guerra, cercherebbero di fuggire dalla capitale libica. I più disperati potrebbero cercare anche di raggiungere l’Italia via nave. E andrebbero a incrementare la massa dei disperati che, attraverso migrazioni apocalittiche, fuggono dalla fame, dai conflitti e dalle aree di guerra africane per trovare una via di fuga in Europa e sbarcare sulle coste italiane.

Al di là dell’economia e delle “convenienze italiane” in Libia, resta un problema colossale che nessuno dei governi italiani degli ultimi anni e l’Europa hanno saputo fronteggiare adeguatamente. Tortura, detenzione, sfruttamento e violenze sessuali rappresentano l’orrore quotidiano per tanti rifugiati e migranti in Libia. Invece che mettere fine a questi abusi, l’Europa sta aiutando la Libia a proseguire nelle violazioni. Fornendo alla Guardia costiera libica formazione e imbarcazioni per trasportare i migranti indietro nel paese, i leader europei contribuiscono a sofferenze inenarrabili. Rifiutando le persone traumatizzate ed esauste di attraccare nei loro porti, l’Europa continua a mettere a rischio la vita di migliaia di persone, che dopo sofferenze indicibili spesso finiscono annegate nel Mediterraneo.

(nella foto: il generale Haftar)

Per chi volesse approfondire la tematica dell’inviasione italiana della Libia, consiglio la lettura del mio volume “Patria, colonie e affari” (Luglio editore, 2020)

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore