Canale di Suez, Mar Rosso, Cina e nuove Vie della Seta

L’anno scorso, e precisamente il 17 novembre 2019, è ricorso il 150esimo anniversario dell’apertura del Canale di Suez. Alla cerimonia d’inaugurazione furono presenti a nome dell’Italia Orazio Antinori, il patriarca degli esploratori italiani in Africa, Manfredo Camperio, che con la sua società milanese e la rivista “L’Esploratore” avviò la fase proto-coloniale, e Pippo Vigoni. Quell’evento cambiò radicalmente la geopolitica mondiale. E dopo 150 anni siamo ancora qui a parlare del ruolo strategico del Mar Rosso e del Corno d’Africa.

Ora come allora, Il Corno d’Africa continua a godere di una posizione geografica privilegiata, situato di fronte il Golfo di Aden, lo stretto di Bab al-Mandeb e l’Oceano indiano, area fondamentale per lo sviluppo delle “Vie della Seta” in Africa orientale e della Maritime Silk Road, la “Via marittima della Seta”. Ieri c’era la mitica terra di Punt, uno dei più straordinari esempi di globalizzazione del mondo antico, e alla fine di Adulis subentrarono Massaua e le cittadine costiere come Suakin. E anche oggi, in fondo, la globalizzazione non è molto diversa da quella della terra di Punt.

Oggi numerosi attori internazionali sono presenti nell’area attraverso la realizzazione di strutture militari e di hub logistico-portuali. E come allora il Corno d’Africa, oltre ad avere i più bassi livelli di sviluppo socioeconomici del mondo, detiene globalmente i più elevati livelli di fragilità ambientale e conflittualità etnica, religiosa e tribale che hanno favorito il dilagare di gruppi del terrorismo islamista, milizie armate locali e pirati. Gli scenari di crisi continuano a susseguirsi, malgrado la storica pace firmata nel 2018 tra Etiopia ed Eritrea. Questo 2020 bisesto e funesto ha visto, oltre al COVID, dilagare le inondazioni e le locuste, ed esplodere la guerra nel Tigrai. In Etiopia gli equilibrismi tra stato centrale e regioni federate sono entrati in fibrillazione, unitamente ai conflitti politici interetnici per la spartizione del potere. Ma senza troppi clamori, quasi sottotraccia, è continuato l’intervento cinese nell’area. Per Pechino l’interesse per il Corno d’Africa è strettamente legato all’approvvigionamento di risorse minerarie ed energetiche, agli investimenti nel settore agricolo, portuale, manifatturiero e bancario.

Il continente africano rappresenta un fondamentale partner commerciale per Pechino. Per la Cina, inoltre, l’interesse nel Corno d’Africa riguarda anche la sicurezza del commercio e degli investimenti ma anche dei cittadini cinesi impiegati in loco. Ormai il commercio bilaterale tra Cina e Africa supera i 200 miliardi di dollari annui. E proprio Nel Golfo di Aden vi è uno dei principali checkpoint presenti lungo la Maritime Silk Road. Questi checkpoint marittimi rappresentano oggi il cuore dell’economia globale, con lo stretto di Bab-el-Mandeb, in particolare, che è un transito obbligato per il trasporto del greggio e il gas del Golfo Persico, della materia prime africane e per le navi che trasportano beni di varia natura, da e per i mercati asiatici ed europei, per un valore stimato di 700 miliardi di dollari annui.

Il 3 – 4 settembre 2018, nel corso del VII Forum on China Africa Cooperation (FOCAC), il presidente cinese Xi Jinping ha promesso di concedere in prestito 60 miliardi di dollari agli Stati africani, insieme a una maggior cooperazione con le organizzazioni regionali africane e al sostegno da parte delle aziende private cinesi con investimenti di circa 10 miliardi di dollari in tre anni nei settori della sicurezza, dell’assistenza umanitaria e dello sviluppo. Fondamentale per la Cina è stata la penetrazione nel piccolo Stato di Gibuti, poiché la sua posizione geografica lo rende un punto operativo e strategico fondamentale, con una notevole importanza geopolitica e geostrategica.

Lo Stato gibutiano è divenuto per la Cina un sempre più rilevante scalo di traffici commerciali. Pechino, in questi anni, con sempre più forti investimenti ha sviluppato importanti scali portuali nel paese per l’importazione e l’esportazione di merci e bestiame, come il porto di Doraleh, a ovest della città di Gibuti, sviluppato dalla China State Construction Engineering che ha edificato un vasto terminal petrolifero e uno scalo container. Sono stati inoltre sviluppati il porto di Tadjourah, dedicato all’esportazione di potassio per uso agricolo e quello di Ghoubet, dedicato all’esportazione del sale. Gli scali portuali gibutiani sono, inoltre, utilizzati da diversi Stati africani per la riesportazione delle loro merci: in particolare, l’Etiopia dipende tuttora da Gibuti per il 90% di tutto il suo import/export, non avendo un accesso proprio al mare. Il porto di Massaua, come nell’antichità, potrebbe nei prossimi anni tornare ad essere “la porta dell’Etiopia” sul Mar Rosso, ma le sue infrastrutture portuali e soprattutto quelle ferroviarie e terrestri necessitano di importanti investimenti e ammodernamenti, e soprattutto della stabilità nella regione, messa ancora una volta in discussione dalla guerra nel Tigrai. Per un nonnulla uno dei razzi lanciati dai ribelli del TPLF (Tigray People’s Liberation Front) su Asmara poteva centrare in pieno l’ambasciata cinese nella capitale eritrea.

Il governo di Pechino ha, inoltre, tramite maestranze e aziende cinesi, investito sul suolo gibutiano nella realizzazione di strade, aeroporti, alberghi, banche, centri commerciali, impianti eolici e solari e una rete idrica per il trasporto dell’acqua potabile dall’altopiano etiopico. Gibuti è inoltre per la Cina anche un importantissimo hub informatico, con la realizzazione di cavi sottomarini di fibra ottica, e investimenti nel know-how tecnologico e scientifico. A Gibuti, il governo di Pechino ha anche aperto la Djibouti International Free Trade Zone, una zona economica speciale di libero scambio e la prima base militare sul continente africano. Attraverso la modernissima ferrovia che collega Gibuti ad Addis Abeba, la Cina ha inserito il mercato etiope e africano direttamente nelle “Vie della Seta”, collegando l’Africa orientale e il Corno d’Africa alle zone economiche della Cina meridionale e alla regione del Xinjiang.

L’Etiopia resta un partner di assoluto rilievo per la Cina, poiché offre importanti opportunità d’investimento sia nel settore agricolo che manifatturiero, con costi di manodopera considerevolmente ridotti. Tra le opere più importanti realizzate dalle maestranze cinesi rientrano l’autostrada Addis Abeba – Adama e la metropolitana leggera nella capitale etiope, finanziate in larga parte con prestiti concessi dall’Exim Bank, con la loro costruzione e gestione che è stata affidata ad aziende cinesi. Nel settore manifatturiero, importanti sono anche gli investimenti del gruppo multinazionale cinese Huajian Group nell’Eastern Industrial Zone e nel parco industriale etiope, l’Hawassa Industrial Park, le zone economiche speciali sino-etiopi.

Ma qual è l’altra “faccia della medaglia” dell’intervento cinese in Africa? Molto semplice dirlo. La Cina finanzia ma non fa mai beneficienza. La Cina, peraltro, ha finanziato circa il 70% della nuovissima linea ferroviaria elettrificata Addis Abeba – Gibuti, con un costo di circa quattro miliardi di dollari, tramite la China Civil Engeneering Construction Corp: ma se l’opera non dovesse raggiungere il break even point, i cinesi diventeranno titolari dell’infrastruttura. È vero, le aziende cinesi assumono molti lavoratori locali (si parla del 70% del totale), ma la manodopera africana raggiunge raramente posizioni di vertice e lavora spesso in condizioni vicine allo sfruttamento, con salari molto bassi e orari di lavoro elevati.

E poi restano i due ultimi incumbent, forse i più pericolosi per la stabilità regionale. La penetrazione cinese nei diversi settori dell’economia degli Stati del Corno d’Africa ha infatti creato una forte concorrenza alle aziende locali con notevoli ricadute economiche e sociali. A questa difficile situazione, va aggiunta quelle degli effetti negativi del cambiamento climatico che colpisce il Corno d’Africa, che ha condotto a un forte aumento delle difficoltà nel settore agricolo. Inoltre, l’incremento della densità abitativa e la riduzione dei terreni a disposizione delle genti locali, a causa della costruzione di nuove infrastrutture, aggravano le condizioni di agricoltori e allevatori locali andando a intaccare la loro principale fonte di sostentamento e reddito. Spesso le sollevazioni delle popolazioni locali contro i governi centrali sono proprio legate al land grabbing dei territori, effettuati dai governi centrali proprio a danno delle popolazioni locali.

I prestiti cinesi stanno inoltre aumentando il debito africano, raddoppiato in cinque anni e detenuto da Pechino per il 14%. Le banche cinesi, ad esempio, hanno prestato a Gibuti 1,4 miliardi di dollari negli ultimi due anni, oltre il 75% del PIL del paese. E qualora il livello di indebitamento degli stati africani debitori dovesse risultare insostenibile, condurrebbe a una potenziale cancellazione totale o parziale del debito solo tramite la cessione di patrimoni a vantaggio della Cina.

In questo gigantesco “Grande Gioco” nel Corno d’Africa cosa può fare l’Italia? Può fare ancora molto, ma deve tornare ad avere una visione strategica. Abbiamo ancora un patrimonio di conoscenze e di relazioni nel Corno d’Africa che va assolutamente valorizzato e preservato. E abbiamo soprattutto bisogno di fare rete. Il mondo della politica e della Cooperazione italiana non può abbandonare questo territorio o, peggio, permettersi di perdere istituzioni secolari come la Scuola italiana ad Asmara e dimenticare i pochi imprenditori ancora presenti nell’area che, pur tra mille difficoltà, stanno continuando nella loro attività.

Bisognerebbe imparare dai cinesi ad essere maggiormente coesi al nostro interno e fare le scelte giuste per il nostro sistema-paese, dando maggiore continuità all’azione di governo in politica estera. Non abbiamo più molto tempo. Il Corno d’Africa può trasformarsi in una grande opportunità economica e culturale per l’Italia, ma dietro l’iniziativa dei singoli deve una volta per tutte vedersi una nuova politica economica e sociale, che ascolti maggiormente gli imprenditori e gli stati africani, e che non disperda i mezzi a disposizione in interventi a pioggia. Quello dell’ammodernamento del porto di Massaua e delle infrastrutture stradali e ferroviarie per collegare  questo antico porto del Mar Rosso all’Etiopia potrebbe essere un ottimo campo di prova, sempre preservando ovviamente le memorie presenti.

Dobbiamo, in poche parole, tornare allo spirito pionieristico di Manfredo Camperio, alle sue visioni commerciali. Facciamolo per il nostro paese e per il suo futuro, e facciamolo anche per il futuro dell’Africa.