Antonio Banfi e la crisi

In questi giorni pervasi dal populismo, dal negazionismo, dal dilagare dell’anti scienza e in cui le masse sbandierano il moralismo di libertà individualistiche ed egoistiche, mi vengono in mente le parole scritte dal filosofo Antonio Banfi nel suo saggio dedicato alla Crisi:

«[…] la negazione del buon senso è…un’evasione limitata della crisi: non ne vuole afferrare il problema, perché rimane ad uno stadio inferiore dei problemi della vita e della loro soluzione […]. Di più […] si assume […] una ben grave responsabilità: quella di illudere e disarmare gli spiriti: di togliere ad essi l’energia e il coraggio che nascono dalla coscienza del pericolo, d’aggravare quindi su di essi sempre più il peso di una fatalità» (Antonio Banfi, La crisi, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1967, p. 57).

Protagonista del dibattito culturale e politico dell’epoca, Antonio Banfi forse più e meglio di altri seppe intravedere nella crisi il segno stesso della vita e della rinascita dalle macerie lasciate dal fascismo. Tra i suoi maggiori pregi ricordiamo la sua umiltà nello stare tra i banchi, nel parlare coi giovani e nel saper ascoltare. Alcuni suoi discepoli diventarono famosi.

Ma la sua grande intuizione fu forse un’altra: occorreva distruggere il fascismo con azioni concrete ma occorreva, contestualmente, costruire una nuova cultura, onde impedire (come poi, purtroppo, è accaduto) che i rigurgiti fascisti, nazionalisti e populisti riprendessero piede tra le masse, condizionando nuovamente la vita politico-sociale dell’intera Europa.

Banfi pubblicò nel 1943 (l’anno orribile dell’Italia) il breve saggio Moralismo e moralità sulla rivista Studi filosofici. Tra gli studenti del primo anno della Facoltà di Lettere e Filosofia di Milano, affollata di giovani in preda alla massima confusione, vi era anche una giovanissima Rossana Rossanda, che proprio grazie a Banfi abbracciò la lotta partigiana.

Dopo aver affrontato fascismo e nazismo, Banfi dovette subire anche le rigidità del partito (il PCI) di cui era senatore, una sorta di fiore all’occhiello senza tuttavia poter incidere più di tanto sulla sua classe dirigente.

Erano gli anni, quelli del secondo dopoguerra, in cui avvenivano i primi scontri all’interno del PCI, che avrebbero portato la spaccatura del 1956 a seguito dell’invasione sovietica di Budapest (Banfi morirà l’anno dopo in solitudine). Come scrive Rossana Rossanda nel suo La ragazza del secolo scorso (Einaudi, Milano, 2005), il conflitto nel PCI

«[…] non era tanto tra un partito praticista [gestito da Togliatti] e l’intellettuale illuminato [Banfi], ma fra due idee non solo della cultura ma della politica, Milano e Roma. Noi [di Milano] eravamo convinti che coincidessero comunismo e modernità, comunismo e avanguardia, a Roma e a Napoli che coincidessero comunismo e formazione nazionale, comunismo e tradizione; a noi interessavano più gli Stati Uniti, a Roma più il latifondo. Il Politecnico guardò agli anni venti, Roma al nazional-popolare, Firenze stette in mezzo con Società […]. Del resto, Milano si fece da parte, per dire così, abbastanza gentilmente, si ritirò, Vittorini inseguito da una cattiva cantilena di Togliatti, e poi Banfi avrebbe chiuso Studi Filosofici perché il PCF (Partito Comunista Francese) si era irritato per una difesa di Sartre dall’attacco di Kanapa […] Del resto la Lombardia non fornì grandi dirigenti alla politica, e ancor meno alla sinistra».

Rileggiamo le pagine di Antonio Banfi, e ispiriamoci a lui nella lettura della crisi (politica, di rappresentanza, di valori e di morale) che ancora segna i nostri giorni. Se si vuole davvero dare un senso alla nostra vita oggi occorrerebbe, come ci ha insegnato Banfi: percepire la nostra presenza nella crisi, spezzando lo specchio del proprio io autoreferenziale; valorizzare il negativo come forza immanente senza obiettivizzarlo in assoluto; portare finalmente alla luce la forza creativa con decisioni e azioni che richiedono energia, coscienza, responsabilità, chiarezza e consapevolezza del bene comune

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore