Antonia Pozzi e il suo rapporto con Antonio Banfi

Antonia Pozzi nacque il 13 febbraio 1912. Molti in questi giorni stanno celebrando il 110esimo anniversario della sua nascita, ma sono in pochi a ricordare i suoi rapporti col filosofo Antonio Banfi, essenziali per comprendere anche il dramma personale della poetessa, che morì suicida nel 1938

A partire dal 1934, la Pozzi frequentò le lezioni universitarie di Antonio Banfi, subentrato a Milano nella cattedra di estetica a Borgese, ed entrò in contatto con il folto gruppo di allievi che gravitavano intorno a lui in questi anni e che poi svolsero un ruolo di primo piano nella vita culturale italiana. Si tratta di filosofi come Remo Cantoni, Enzo Paci, Giulio Preti, Giovanni Maria Bertin, Dino Formaggio; poeti e critici letterari come Vittorio Sereni, Maria Corti e Luciano Anceschi, artisti come Ernesto Treccani, editori come Alberto Mondadori e Livio Garzanti[1].

Antonia Pozzi si forma con Banfi, ne segue le lezioni, e con lui si laurea il 19 novembre 1935 con una tesi su Flaubert. Sono questi gli anni – quelli posti tra la pubblicazione dell’opera filosofica fondamentale di Banfi, i Principi di una teoria della ragione (1926) e la seconda guerra mondialedella piena maturità del filosofo e in cui si sviluppa il suo disegno culturale e in genere sui fondamenti di una filosofia della cultura. In questi anni, si forma il primo nucleo dei suoi maggiori allievi, da Elio Cantoni a Fulvio Papi, da Giulio Preti a Dino Formaggio. In questi anni si fa acuta in Banfi l’attenzione alle filosofie della vita e all’irrazionalismo, nell’ambito del quale si fa centrale il tema della crisi.

Antonia Pozzi segue il celebre corso del maestro Banfi su Nietzsche dell’anno accademico 1933-34, mentre le pagine banfiane sulla crisi risalgono all’anno successivo, unitamente al noto corso su Spinoza. In una sorta di percorso ideale, la proposta di Flaubert, come ha scritto Fulvio Papi, voleva indicare un personale cammino ideale.

È facile immaginare, com’era costume allora, che la tesi venne chiesta poco dopo il termine delle lezioni, tra maggio e giugno 1935. Il 25 settembre di quello stesso anno, inviando una lettera al suo maestro, Antonia Pozzi scrisse a Banfi per chiedere di poter ‘irregolarmente’ presentare la sua tesi nella sessione autunnale. Formulò una rapida sintesi dopo mesi di silenzio.

Banfi ben conosceva le capacità e la grande sensibilità dell’allieva, e il tema di Flaubert era perfetto, considerato che l’autore francese aveva affidato il risultato artistico delle sue opere a un duro e difficile lavoro di stile. Ad Antonia Pozzi lo studio di questo autore avrebbe così potuto rivelare come l’arte non era un semplice riflesso della propria sensibilità, un riconoscimento emozionale, bensì un costante lavoro sull’oggetto artistico sino a tramutarlo in ‘oggettività spirituale’.

La convenzionalità e la retorica poetica potevano essere superate solo con la pratica, con l’esercizio quotidiano, assiduo, della penna. Non occorreva, pertanto, pensare ai ‘miracoli’ letterali, alle improvvisazioni, ma al contrario affidarsi alla faticosa attività della ‘lima e dello scalpello’, alla lotta sanguinosa contro sé stessi e i ‘cancri’ giovanili, contro l’eccessivo lirismo[2].

Antonia Pozzi riferisce al suo maestro di aver tenuto ben presente le due direzioni fondamentali della personalità flaubertiana, la fantastico-romantica e la critico-realista, «dal cui attrito scaturisce il valore essenziale di un’estetica che è anche la soluzione di una vita».

Banfi non sottovaluta l’intelligenza, la sensibilità e la vitalità della sua allieva. Ma forse non si rende conto che quelle poche poesie che la Pozzi gli consegna, insieme alla richiesta della tesi, sono per lei un tesoro. Il maestro pare non abbia particolarmente apprezzato, anche se probabilmente l’atteggiamento di Banfi non si focalizzò tanto su un giudizio estetico: probabilmente, Banfi non ritenne il ‘fare poesia’ una risposta adeguata al disagio esistenziale che scorgeva nell’allieva.

La conclusione della lettera di Antonia Pozzi al suo maestro è comunque pregna di riconoscenza e affetto. Queste espressioni fanno giustizia alle sottili calunnie che circolarono negli anni del secondo dopoguerra, secondo le quali il magistero di Banfi portava diritto al suicidio. La tesi di Antonia Pozzi si concludeva in ogni caso con una frase premonitoria. «Noi siamo soli. Soli come il beduino nel deserto […]. Quando moriremo, avremo questa consolazione: di aver fatto della strada e di aver navigato nel Grande».

Il corpo di Antonia Pozzi, questa giovane donna fragile, tormentata e sensibile, fu ritrovato in fin di vita presso Chiaravalle, che come Pasturo era il suo luogo dell’anima, il 3 dicembre 1938. Si era imbottita di barbiturici per farla finita. Presso l’editore Garzanti, nel 1940 verrà pubblicata la sua tesi con la prefazione di Banfi.

In due pagine commosse il filosofo ricordò il Flaubert della sfortunata allieva, così come ella lo lasciò. Era un’opera della giovinezza e – scrisse Banfi – della giovinezza manteneva tutti i caratteri: «l’impegno dello studio, la partecipazione commossa, la freschezza dell’intuizione immediata, l’astrattezza vibrante dell’idea e, soprattutto, quell’atmosfera di limpidità e semplicità spirituale in cui si bagnano, per i giovani, le cose, gli eventi, le anime degli uomini».

L’insegnamento filosofico di Banfi, il lavoro artistico quale antidoto e terapia ai vuoti dell’anima e all’incertezza del cammino esistenziale non bastarono all’irrequietezza esistenziale di Antonia Pozzi, che solo nell’evento poetico e nella malinconia trovò la sua vocazione.

(nella foto: Antonia Pozzi è la seconda in alto a sinistra, dopo Vittorio Sereni. Antonio Banfi è l’ultimo a destra)


[1] Dizionario Biografico degli Italiani, voce Pozzi Antonia, a cura di Sara Lorenzetti, Volume 85 (2016).

[2] POZZI Antonia, Lettera inedita ad Antonio Banfi, in Archivi di Lecco, gennaio-marzo 1996, pp. 93-96; PAPI Fulvio, La tesi con Banfi, in Resine, Quaderni liguri di cultura, 2° trim. 2005, pp. 23-27.

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore