Afghanistan

L’Afghanistan, questo affascinante e turbolento paese racchiuso tra Iran, Pakistan e le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale, è da secoli lo scacchiere terrestre del Great Game, la metafora elaborata nel 1859 dallo storico imperiale britannico sir John Kaye.

La maledizione delle società mediorientali moderne continua ad essere quella di perpetuare una tradizione fondamentale che vuole l’appartenenza dell’individuo e la sua protezione alla famiglia, al clan, alla tribù, all’etnia e/o alla setta di appartenenza. La complessità dell’Afghanistan è data in primis dal suo variegato mosaico etnico interno. Per secoli hanno convissuto i Tagiki, membri del ceppo persiano sunnita, i Pashtun sunniti del sud, gli Hazara sciiti del centro e le altre minoranze etniche (uzbeki, turkmenistani, nuristani ecc.). L’8 marzo 2001 i talebani fecero saltare con la dinamite i Buddha di Bamiyan e distrussero le reliquie del Museo di Kabul: fu un modo per cancellare, oltre alle basi della pacifica convivenza etnica, persino la memoria storica del paese.

Il mitico comandante tagiko Massud fu uno dei pochi dell’Afghanistan contemporaneo a cercare di preservare l’unità nazionale del paese, ma venne ucciso due giorni prima dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 senza mai poter vedere realizzata quella riconciliazione etnica che tuttora resta un miraggio per l’Afghanistan. La morte di Massud fu pianificata da Bin Laden, per disgregare l’Alleanza del Nord prima degli attentati di New York e gli americani non potessero più disporre di un supporto sul suolo afghano.

Il vuoto della politica nazionale afghana è stato colmato dai talebani e dal movimento islamista, il cui unico riferimento resta il governo terreno del profeta nella città-stato di Medina, fondata dagli antenati-puri, i salafi, quattordici secoli fa. Gli USA utilizzarono i talebani per fronteggiare l’invasione sovietica del paese. La loro ritualità maniacale, oltre ad aver impoverito drammaticamente i contenuti spirituali dell’Islam, si concentra su un rigido e immutabile contenitore, cui corrisponde una vertiginosa caduta del livello intellettuale. Per i talebani è assolutamente impossibile e blasfemo leggere anche una sola parola di Jami, di Hafez, di Rumi o di qualsiasi poesia musulmana scritta in persiano, in turco, in pashto o in urdu: li scandalizzano anche la danza dei Dervisci e la musica.

I mantra dei talebani ruotano intorno agli assunti di Sayyid Qutb, esponente dei Fratelli Musulmani egiziani giustiziato da Nasser nel 1965, secondo cui il mondo moderno (occidentalizzato o marxista che sia) gira a vuoto intorno alla ricerca di un benessere unicamente materiale, idolatra. Solo un ritorno integrale alle leggi rivelate da Dio e ai primordi dell’Islam può consentire all’uomo di concepire la sua esistenza terrena, compiendo la volontà divina e in attesa della ricompensa dell’aldilà. Il rigore delle pene previste per i trasgressori della purezza islamista, anche quando sono brutali e feroci (la frusta, l’amputazione, la morte) vengono viste dai talebani come per nulla arbitrarie, anzi, come una forma di misericordia divina.

Bin Laden ha raccolto le istanze dell’islamismo, e divenne uno dei principali benefattori dell’emirato afghano, che oggi rinasce dalle sue ceneri. E secondo la tradizione afghana, i benefattori si accolgono sempre come ospiti d’onore. Bin Laden è stato ucciso, ma al-Haq, l’ex capo della sicurezza di Bin Laden, è riapparso in Afghanistan nei primi giorni di settembre 2021 sotto la pesante guardia talebana. Il giorno dopo l’apparizione di al-Haq, al-Qaeda si è congratulata con i talebani in una dichiarazione sulla loro “vittoria storica” ​​sugli Stati Uniti. Al-Haq è visto come uno dei leader di al-Qaeda che è riuscito a tenere Bin Laden fuori dalle mani degli americani per anni.

Ed ecco riapparire gli incubi peggiori per l’Occidente. Oltre all’ennesima drammatica emergenza umanitaria, l’Afghanistan rischia di tornare ad essere la base logistica prediletta del terrorismo islamista. Il comandante Massud lesse nell’ideologia del mullà Omar e di Bin Laden un pericolo mortale per l’Occidente, anche se ignorava l’esatta natura dell’attacco progettato. Il suo Panjshir torna oggi ad essere accerchiato dai talebani, difeso dal giovane figlio Ahmad, che come il padre per resistere dovrà fare ricorso agli insegnamenti di Mao. Le regole della resistenza sono semplici: il nemico talebano avanza, si batte in ritirata; il nemico si accampa, si cerca di logorarlo; il nemico si stanca, si attacca; il nemico si ritira, si insegue. La disperata resistenza del Panjshir in fondo altro non è che la resistenza dell’Umanità contro le barbarie dell’islamismo, nell’indifferenza di un Occidente che già intende “trattare” coi talebani.

Nulla in fondo è cambiato nell’eterno scenario di guerra afghano. La polveriera ideologico-politica che si chiama Afghanistan continuerà ad essere alimentata dalla stupidità e dall’incoerenza dei crudeli opportunismi politico-militari dell’Occidente. Massud ha saputo rappresentare il coraggio e la dignità, e ora il suo testimone è stato raccolto dal figlio. E noi, Europa, Stati Uniti, ONU, che cosa abbiamo rappresentato?

(nella foto: Ahmad Massud)

Pubblicato da pellegatta

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell'esplorazione italiana nel mondo. Negli ultimi anni si è dedicato in particolare al Corno d'Africa. E' membro del comitato scientifico del Museo Castiglioni di Varese. Ha pubblicato diversi libri per le case editrici FBE, Besa editrice, Historica e Luglio editore